L'ebreo e il rosso
Così il Dna dell'antisionismo comunista ritorna trasformato nell'antisemitismo di sinistra
Per capire come abbia potuto la sinistra antifascista e antinazista finire invischiata nel giustificazionismo di chi fa strage di ebrei occorre tornare indietro, a una storia spesso sottovalutata: quella dell’antisionismo di matrice comunista
Etgar Keret, scrittore e regista israeliano (“sono di sinistra, resto di sinistra”) ha consegnato al Corriere un giudizio netto e sofferto sulla sinistra europea “che a livello emotivo” non riesce a separare la causa palestinese da “un’organizzazione fondamentalista, misogina, omofoba, controllata dall’Iran”. Per l’appunto: la filosofa e attivista di riferimento della sinistra americana, Judith Butler, ha dichiarato che “Hamas e Hezbollah sono movimenti progressisti e parte della sinistra globale”. Per capire come abbia potuto la sinistra antifascista e antinazista, cresciuta per decenni dal mito della Armata rossa liberatrice di Auschwitz, finire invischiata nel giustificazionismo (“emotivo” o no che sia) di chi fa strage di ebrei, occorre tornare indietro, a una storia spesso sottovalutata: la storia dell’antisionismo di matrice comunista.
Dal 7 ottobre in molti si interrogano su un cambiamento profondo e all’apparenza irreversibile, eppure paradossale: la sinistra che ha sconfitto il nazismo, il comunismo liberatore degli ebrei cui una grande parte dell’intellighenzia ebraica ha con convinzione aderito, si è ribaltata in un esplicito antisionismo (motivato da antioccidentalismo e anticapitalismo) che ora in molte componenti tracima in esplicito antisemitismo anche grazie a “una narrativa della decolonizzazione pericolosa e falsa”, ha scritto Politico.
Com’è stato possibile? Una parte della risposta va ricercata nel Dna del comunismo (sovietico e internazionale), in un substrato profondo in cui antisionismo e antisemitismo hanno sempre convissuto e di cui è impossibile liberarsi se non viene riconosciuto, se resta occultato da quel “pregiudizio positivo” (Furet) che in occidente ha sempre coperto molti mali del comunismo. Bisogna guardare la storia sovietica – il tentato pogrom in Daghestan, di cui pure Nona Mikhelidze ieri sulla Stampa spiegava la genesi non propriamente “russa”, è un segnale chiaro – per comprendere la radice di quello che lo storico Gabriele Nissim ha chiamato “il grande equivoco del comunismo nel mondo ebraico”.
Fu la Rivoluzione d’ottobre a chiudere ufficialmente con l’antisemitismo zarista. I rapporti tra l’Urss e gli ebrei non furono sempre lineari, ma in generale positivi. Nel 1942 il governo sovietico creò addirittura un “comitato antifascista ebraico-sovietico” per incrementare la lotta al nazismo. Dopo la guerra, l’adesione di gran parte dei sopravvissuti al comunismo liberatore fu potente, sincera e drammatica, come hanno ricostruito tra gli altri Gabriele Eschenazi e Gabriele Nissim in “Ebrei invisibili, i sopravvissuti dell’Europa orientale dal comunismo ad oggi”. Nel giro di pochi anni, le cose cambiarono. A un primo disegno teso a integrare gli ebrei – ritenuti più affidabili degli elementi autoctoni e nazionalisti – nelle nuove dirigenze, al costo di imporre loro il cambio di cognome e la completa rottura con l’ebraismo, presto si sostituì il sospetto stalinista verso una incoercibile autonomia. E la persistenza nelle opinioni pubbliche (Polonia, Ungheria) degli antichi pregiudizi suggerì di cambiare strada. Gli ebrei tornarono a essere sospetti.
Il Comitato antifascista ebraico sospettato di “tendenze nazionaliste nel 1948 fu chiuso per “attività antisovietica” e centinaia di intellettuali furono arrestati. Il 1953 fu l’anno del celebre “complotto dei medici” accusati di aver attentato alla vita di alti funzionari: più della metà erano ebrei, sospettati di essere al soldo dell’intelligence occidentale, infiltrati nel Partito comunista. L’ebreo tornava a essere un potenziale nemico, il soggetto etnicamente e culturalmente più disponibile al tradimento. Venne presto anche l’unificazione del sospetto contro Israele. La Pravda scriveva: “Il sionismo è l’ideologia dello Stato borghese ebraico, del nazionalismo ebraico borghese, attraverso la quale la borghesia nazionalista ebraica, al soldo dell’imperialismo americano, cerca di influenzare i nostri cittadini di origini ebraiche”. Tornava così, sotto nuove spoglie, il sospetto “plutogiudaico”.
Questo sospetto è rimasto nel Dna della sinistra, anche se il virus ha avuto varianti. Fiamma Nirenstein, già nel 2004 in “Gli antisemiti progressisti - La forma nuova di un odio antico”, ne aveva individuato una mutazione nella generazione del ’68: un antisemitismo “democratico” che identifica Israele con l’imperialismo e i palestinesi come vittime sacrificali. Occorre tornare ancora a François Furet. Nel suo capitale “Il passato di un’illusione” spiega come l’utopia comunista sia sopravvissuta alla crisi dell’Urss trasferendosi in “diversi campi sostitutivi”, tra cui in primis il mito del terzomondismo anticoloniale, in cui il movimento di liberazione della Palestina non poteva non avere un posto d’onore. Ma uno dei tremendi prezzi pagati è stata l’identificazione di Israele come succursale del complotto occidentale. Ora l’antisionismo politico torna all’odio degli ebrei nella sua matrice più profonda e impura, storia di oggi.