Spese

I troppi tabù che la politica non vuole affrontare quando parla di sanità

Paolo Cirino Pomicino

Risorse insufficienti e problemi che non possono relegarsi sempre e solo alla prossima manovra finanziaria in approvazione

Il pianeta sanitario è in forte ebollizione per le politiche adottate negli ultimi 25 anni e per quelle previste nella legge finanziaria arrivata ieri in parlamento nella quale sembra vi sia una decurtazione delle future pensioni di medici e infermieri. Insomma, come si dice dalle nostre parti, “sul cotto acqua bollente”. Il dibattito sulla sanità inoltre non può limitarsi alle risorse definite in ogni legge finanziaria perché i problemi sono tanti e non tutti li conoscono. Le risorse sono naturalmente la prima cosa come ci insegnavano i Romani (primum vivere deinde philosophari) e non c’è alcun dubbio che in questi 30 anni le risorse sono rimaste più o meno le stesse in relazione al pil e quindi largamente insufficienti e addirittura ridotte rispetto agli anni della pandemia nonostante i tre miliardi aggiunti all’ultimo momento nella finanziaria approvata ieri dal governo. L'ex ministro Speranza, per ovviare a questa pluridecennale follia in particolare della sinistra che ha governato per 19 anni su 28, su queste colonne ha fatto la somma delle risorse destinate nel triennio 2020/2022 durante i quali le erogazioni sono state fatte arrivare a oltre il 7% del pil. Ha ragione ma sarebbe stata una follia omicida se nonostante la pandemia che ha procurato oltre 150 mila morti le risorse non fossero state aumentate. E infatti, finita la pandemia per il 2023, il fondo sanitario nazionale è subito tornato ad avere il 6,7% del pil.

Risorse insufficienti aggravate da una disparità regionale della spesa pro capite (Campania 1.798 euro, Calabria 1.782 euro, Piemonte 1.901 euro,  Emilia Romagna 1.840 euro). Ma in questi 25 anni è stata anche disastrata la medicina territoriale e affannata quella ospedaliera. Sono stati ridotti i numeri degli ospedali  e nel 1998 fu introdotto il numero chiuso nelle facoltà di medicina e nelle varie specializzazioni. Un concetto questo utile perché si parametrava la capacità formativa degli atenei agli spazi, alle strutture e ai docenti che ciascuno ateneo aveva. Questo concetto impattava pesantemente sul futuro fabbisogno di medici e andava accompagnato da un allargamento della capacità formativa di tutti gli atenei che avessero una facoltà di Medicina in relazione proprio al citato fabbisogno. Nulla è stato fatto e oggi siamo alla crisi drammatica degli ospedali e della medicina territoriale (mancheranno circa 30 mila medici nel prossimo quinquennio). Come se non bastasse è stata introdotta come specializzazione la medicina di urgenza la cui dignità di specialità è largamente discutibile e per fare definitivamente la frittata si recluta nei posti di pronto soccorso solo medici e chirurgi generali in possesso della relativa specialità. In anni lontani il servizio di pronto soccorso medico e chirurgico era un servizio  garantito a turno da tutti i medici dei reparti di medicina interna e di chirurgia generale per offrire due cose: una sostenibilità del servizio e una formazione più completa di tutti i medici. Per finire questa breve carrellata, gli ospedali in larga parte sono le uniche aziende che lavorano, al netto dei servizi di pronto soccorso, sei ore al giorno mentre in tutti i grandi paesi l’orario in cui l’intero ospedale funziona al 100% è dalle 7,30 alle 18 con effetti positivi sul terreno della produttività e sulle scandalose liste di attesa.

Per far questo serve, però, un numero di medici e di infermieri adeguato per allargare così lo “spazio lavoro” e poter ridurre lo spazio-letto e così i costi fissi. Ultima nota ma fondamentale. Noi facemmo nel 1990 un contratto ai medici ospedalieri dando 5 milioni al mese ai primari (e a scala agli aiuti e agli assistenti) e sostanzialmente lì siamo rimasti perché i 5.000 euro di oggi ai primari sono formalmente uguali ai 5 milioni di ieri ma il potere di acquisto di entrambi è totalmente diverso. In quella occasione per ridare dignità economica ai medici ospedalieri chiedemmo loro un aumento di due ore di lavoro settimanale in più che furono accettati dai grandi sindacati di settore e da quelli generali. La politica, all’epoca, guidava non inseguiva la società e i suoi bisogni.

E per finire un’ultima malizia: perché un magistrato dopo venti anni e senza alcun concorso ha uno stipendio intorno ai 7/8 mila euro e un primario dopo oltre 20 anni e previo diverse valutazioni si ferma a 5 mila? A pensarci bene non è una malizia ma solo una verità che deprime chi ha nelle sue mani la nostra vita e lo invita prima o poi a fuggire dalla sanità garantita dallo stato per rifugiarsi nel servizio pubblico sanitario garantito dai privati accreditati con il rischio di rompere un equilibrio molto utile alla salute del paese

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