Il retroscena
Meloni e le riforme: "Non farò la fine di Renzi, se perdo il referendum non lascio"
La premier non vuole "politicizzare la sfida" e pensa di presentare il quesito nella primavera del 2025. Domani il premierato va in Cdm, si tratta per non urtare il Quirinale
Lo dice con sicurezza, ma forse anche per darsi una giusta dose di coraggio: “Non farò la fine di Matteo Renzi: non politicizzerò il referendum sulle riforme”. Giorgia Meloni lo ripete a tutti in queste ore. Vuole evitare che l’eventuale vittoria del “no” (i vari comitati già tirano fuori le bandiere dalla cantina) possa in qualche modo scansarla da Palazzo Chigi, come accadde con l’allora leader del Pd nel 2016. Quanto capitò all’ex rottamatore resta ben impresso nella mente della premier. E’ un piccolo apologo sul potere, un monito per il futuro e, soprattutto, una parabola da scacciare. “Non sarà una battaglia epocale del governo, ma un punto del programma per il quale gli italiani ci hanno votati: stiamo tranquilli”, dice ancora per darsi forza la leader nelle riunioni che si susseguono sul testo arrivato ormai alle ultime limature. La possibilità che la riforma costituzionale superi in doppia lettura il sì dei due terzi del Parlamento è praticamente zero, anche se Italia viva dovesse unirsi al centrodestra. Nonostante gli inviti del presidente del Senato Ignazio La Russa a coinvolgere il più possibile le opposizioni, la maggioranza larghissima sul premierato resta una chimera. E a Palazzo Chigi lo sanno bene. Sicché troncare e sopire, ripetono nelle stanze del governo. Il referendum sembra uno scenario scontato, uno scoglio obbligato. Ci sono già i tempi. Nei verdi quadernini meloniani esiste una data segnata con il pennarello blu: primavera 2025. Per quel periodo è prevista, secondo i calcoli che girano in Parlamento e nel governo, l’ordalia popolare: sì o no. Dentro Fratelli d’Italia, infatti, contano di licenziare la pratica parlamentare, in doppia lettura, per la fine del 2024. Intanto, c’è solo un motto: fuga da Renzi. Come raccontava l’altro giorno il capogruppo alla Camera di FdI Tommaso Foti: “A differenza del suo il nostro quesito, qualora fosse, sarà snello e molto lineare, di facile comprensioni. D’altronde parliamo di una legge composta da cinque articoli: né Cnel, né Senato da abolire. Sarà molto elementare”.
Il testo vedrà la luce domani in Consiglio dei ministri, ma la parola d’ordine è stata da subito per parlamentari, ministri e sottosegretari: “Non caricare eccessivamente” questa partita. Si mettono insomma le mani avanti. Per scongiurare le prove di forza, già viste, del tipo se perdiamo, ce ne andiamo. Certo, questi sono i desiderata di Meloni poi la storia e la cronaca a volte possono prendere pieghe non controllabili. Molto dipenderà dallo stato di salute del consenso della premier e del governo quando il quesito sarà sottoposto al referendum. E sarà importante anche capire lo stato dall’opinione pubblica e dei partiti dell’opposizione, che sull’argomento sono divisi o diversamente allineati. Chi si spinge più avanti di tutti è il Pd che ha messo la difesa della costituzione, dopo il no alla manovra e sì alla pace in medio oriente fra i pilastri della manifestazione dell’ 11 novembre a Roma. Più tiepido, e in apparenza disinteressato, il M5s di Giuseppe Conte, vittima e fautore di ribaltoni. Nella strategia di Meloni c’è anche il rapporto con il Quirinale: non le sfugge la popolarità del presidente della repubblica e anche per questo motivo sta cercando di evitare uno scontro. Ecco perché il testo è ancora in via di definizione, e continua ad andare su e giù nel tunnel invisibile che lega Palazzo Chigi al Colle. E più di tutte, è la norma antiribaltone a traballare, e su cui si valutano alternative. Non convince del tutto la possibilità - prevista nella bozza del testo firmato dalla ministra Elisabetta Casellati che il capo dello Stato dia l’incarico a un parlamentare eletto nella stessa maggioranza del premier, di fronte a una crisi di governo. Così come la volontà che in caso di sfiducia del capo del governo si vada subito al voto (altra ipotesi che sembra scomparsa dal campo). In alternativa alle urne rispunta anche l’opzione del ticket premier-vicepremier. Potrebbe consentire al capo dello stato di incaricare il vicepresidente del Consiglio – e non più genericamente un altro eletto della stessa coalizione di governo – al posto del premier che cessa il suo mandato. Domani il grande giorno (con conferenza stampa di Meloni): il ddl dovrebbe partire da quel Senato che Renzi provò in tutti i modi ad abolire.