Il caso
Meloni dura con Talò e lieve con le riforme: "Non lego il referendum alla vita del governo"
La premier sacrifica il diplomatico: ora in pole c'è Luca Ferrari. Sul premierato c'è la freddezza del Quirinale: nessuna condivisione, né adesione
Nel fiume di parole Giorgia Meloni si raccolgono tre notizie. Allora: annuncia le dimissioni del suo consigliere diplomatico Francesco Talò dopo la figuraccia della telefonata dei due “comici” russi, assicura che non legherà la vita del suo governo all’esito del referendum (“non ha nulla a che fare”) e infine sempre a proposito “della madre di tutte le riforme” rivela che c’è stata “un’interlocuzione con gli uffici del Quirinale”. Partiamo dalla fine, dal Colle trapela un certo distacco rispetto al testo del ddl che ora sarà sottoposto al Parlamento: nessuna condivisione, né adesione. Questo non significa che Sergio Mattarella non firmerà la legge o porrà rilievi particolari, ma da qui a dire che la riforma ha avuto nella sua genesi il via libera e la benedizione del capo dello stato ce ne passa. L’impressione è che il richiamo di Meloni, dei vicepremier Salvini e Tajani e della ministra Casellati “a preservare al massimo grado le prerogative del presidente della Repubblica” sia più la ricerca di un ombrello che la dimostrazione di una reale intesa su una legge dai tratti ancora poco chiari.
A partire dalla “costituzionalizzazione” del programma elettorale che dovrebbe rispettare il premier subentrante, con il controllo del Colle, in caso di caduta di quello votato dai cittadini. Formula vaga e inafferrabile. Meloni rinvia comunque alle Camere la possibilità di qualsiasi modifica, compresa quella a lei molto gradita del “simul-simul”: in caso di caduta del capo del governo, c’è solo il voto. E’ il giorno della riforma appena licenziata dal Consiglio dei ministri – insieme alla governance del Piano Mattei – ma la presenza in conferenza stampa del sottosegretario con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano fa capire fin da subito che l’argomento caldo sarà anche un altro: lo scherzo telefonico subito dalla premier. Domanda del Foglio: presidente, è stata davvero la trovata di due buontemponi o invece si è trattato di un atto di guerra ibrida mosso da Mosca nei confronti dell’Italia? “La telefonata è stata rilanciata da canali organici alla propaganda del Cremlino e questo fatto qualche domanda dovrebbe indurla anche a chi sta facendo da megafono a questi – e qui la premier fa il segno delle virgolette – comici che in televisione hanno detto che non facevano questi scherzi al loro capo del governo perché la pensano come lui”. Ce l’ha con “Otto e mezzo”, la trasmissione condotta su La7 da Lilli Gruber che il giorno prima ha ospitato Lexus, uno dei due protagonisti della burla, se così si può chiamare. “Siamo stati oggetto di disinformazione e di questo tentativo di creare problemi per le posizioni che abbiamo a livello internazionale”.
Sulla meccanica dell’inghippo, la presidente del Consiglio dice che l’ufficio diplomatico ha sbagliato in due occasioni. Nel filtraggio della telefonata, ma cosa ben più grave nel non fare le adeguate verifiche “quando segnalai che c’era qualcosa che non funzionava nel mio interlocutore: non mi è tornato un allert e questo non mi ha consentito di muovermi così ho dato per scontato che le cose fossero corrette”.
Così non sono stati attivati i nostri servizi di intelligence, che da quanto si deduce sono ora al lavoro per ricostruire tutta la faccenda. Restano sul tavolo le dimissioni di Talò presentate e accettate dalla premier senza condividere la scelta con il ministro degli Esteri Antonio Tajani (che si era espresso comunque contro la “superficialità” dell’ufficio) ma solo con il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari. Meloni così chiude il caso e, al netto delle verifiche, prova a voltare pagina. Nel mondo delle feluche, abbastanza sotto choc, c’è chi fa notare l’eccessiva determinazione di Meloni che avrebbe potuto respingere le dimissioni del suo consigliere, ormai prossimo alla pensione dopo anni di onorata carriera. Serviva uno scalpo per difendere il cerchio magico della premier? Ovviamente già si pensa ai sostituti: in pole position c’è Luca Ferrari, sherpa del G7, e poi i due non graduati Agostino Palese (Etiopia) e Fabrizio Buzzi (Albania, balzato alle cronache questa estate per la cena non pagata da un gruppo di italiani e rimborsata al ristoratore dall’ambasciata). Con molta probabilità la nomina arriverà con relativa calma. Rimane il giudizio netto su un ufficio che ha gestito un dossier, una della circa ottanta telefonate avute in questo anno dalla premier, “con superficialità” esponendo l’Italia. Dovrebbe saltare anche Lucia Pasquilini, la diplomatica del desk-Africa che aveva preso in cura la pratica.
Le opposizioni sul caso non mollano e chiedono che Meloni riferisca in Aula. E molto probabile che al suo posto vada Tajani e che invece dal Copasir venga audito Mantovano. Per un caso considerato alle spalle, resta tutto il cantiere riforme che ora entra nel vivo. Meloni fa capire che non politicizzerà il referendum, e non farà come Renzi, dando per scontato l’impossibilità di trovare una maggioranza ampia in Parlamento. “Addio governi tecnici”, dice mentre è seduta in mezzo a Salvini e Tajani, leader di Lega e Forza Italia, partiti che in passato non hanno mai disprezzato questa formula.
L'editoriale dell'elefantino