Viale Mazzini

Gli sprechi della Rai. Auto, corsi di dizione, appalti. La spending che servirebbe alla tv di stato

Carmelo Caruso

Mazzette di carta, vigilantes esterni. Il verbo Rai è appaltare. Un debito da 650 milioni che rischia di arrivare al miliardo di euro. Ecco le voci di spese che la televisione pubblica non taglia

Roma. Perdere, spendere, sorridere. Sono i tre verbi della Rai. Il quarto: appaltare. E’ possibile che nessun dipendente Rai possa fare la vigilanza armata al Foro Italico, per il programma di Fiorello, e si debba pagare una società esterna per 145 giorni con 137 mila euro? Se si vuole misurare questa televisione non bastano più gli ascolti, un metro che con le piattaforme è ormai un metro superato. Alla Rai, ai suoi vertici, andrebbe oggi chiesto: quanto risparmi? Come spendi? Spendi bene? C’è un cimitero di spese che è il vero cimitero della Rai, ed è quello degli affidamenti diretti. 76 mila euro vengono utilizzati per corsi di “dizione e prossemica”. 70 mila euro per noleggiare la “berlina” di Domenica In. Mentre scriviamo c’è un bando aperto per la “fornitura di autoveicoli a noleggio a breve termine senza conducente”. La cifra è di 2 milioni e 276 mila euro. Come può sopravvivere un’azienda divisa in tribù e che va in onda grazie a 120 giornalisti atipici (contrattualizzati come programmisti) che svolgono il lavoro che i “tipici” (2.058 giornalisti) non svolgono? Anziché preoccuparsi della fuga di Corrado Augias, che è passato dalla Rai a La7, dopo 63 anni, sarebbe il caso di chiedersi quale azienda italiana, e pubblica, pratica questo “caporalato” e consente un numero tale di irregolari. La Rai rischia 120 cause legali e rischia di perderle tutte.

 

Ogni giorno di fronte a Montecitorio stazionano tre troupe Rai. Ogni tg ne ha una e ce n’è una quarta che ha il compito di coordinarle tutte e tre. Il costo medio è di 800 euro a troupe. Sono 3.200 euro al giorno e per raccogliere messaggi politici uguali. Se Urbano Cairo, l’editore del La7 e Corriere della Sera, vedesse queste fatture Rai, che elenchiamo, prenderebbe a “pallonate” gli uomini Rai.

 

A Milano, per fornire i quotidiani cartacei, vengono spesi 79 mila euro. Neppure i ministri hanno a disposizione la mazzetta dei giornali di carta, ma solo quella digitale. Per monitorare la visibilità dei personaggi famosi è stato firmato un altro appalto da 95 mila euro. 335 mila euro servono per “servizio di magazzinaggio di omaggi, gadget dei vincitori di concorsi a premi”. Si appalta pure il servizio di “sottotitolazione dei programmi preregistrati” piuttosto che farli in casa. Costo: 2 milioni di euro. Altri 292 mila euro vengono destinati per “monitorare la rappresentazione della figura femminile”. Anche per aggiornare il piano immobiliare si ricorre agli esterni: 75 mila euro. Stessa cosa accade con l’ufficio stampa. 62.950 euro sono stati assegnati a due società esterne per “il servizio di ufficio stampa, promozione e comunicazione per la direzione documentari”.

 

Nel suo desiderio di morte, la Rai, da dentro, ha iniziato a colpire, il direttore generale, Giampaolo Rossi, l’uomo di FdI, che ha due colpe. La prima: difendere i suoi “compagni di camerata”, i direttori sopravvalutati della destra, tutti già presenti in Rai prima di Rossi. Sono quei direttori che permettono all’ex segretario particolare del capogruppo di FdI al Senato, Lucio Malan, di fare perfino la comparsa nel programma simbolo della Rai, l’Avanti Popolo di Nunzia De Girolamo, amica di Meloni. La seconda colpa: proteggere la Rai da chi al governo dice adesso “tagliamo ancora alla Rai”. Che la Rai oggi faccia ascolti o meno passa in secondo piano rispetto alla sua messa “in sicurezza”, alla sua sopravvivenza.

 

La Rai ha 650 milioni di euro di debiti e tra due anni potrebbe sfondare il tetto del miliardo. Se la Rai è in demolizione, a processo dovrebbero andarci, come minimo, gli ultimi sette governi e i ministri dell’Economia che hanno lasciato accumulare un debito spaventoso, un debito che precede l’ultima Rai sgangherata, la tv che ormai si fa a gara a sputacchiare.

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  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio