Il risiko
Cassa depositi e liti. Scannapieco punta restare, grazie a Meloni. Ritorna la carta Donnarumma
L’ad Scannapieco quasi fuori punta sulla premier, Giorgetti dice no e vuole un manager del nord. Palenzona litiga con Guzzetti per la presidenza Cdp
Roma. Si può solo semplificare: è la “banca” del paese, presta denaro allo stato (amministrazioni e aziende) e acquista per conto dello stato. Lo fa grazie al risparmio postale. E’ la Cassa depositi e prestiti. Il governo Meloni deve decidere se cambiare o confermare i vertici. L’intenzione del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è cambiare. Giorgia Meloni non ha deciso. L’ad di Cdp, Dario Scannapieco, sta per concludere il suo mandato triennale. Lo hanno nominato Draghi e Franco. Il presidente Cdp è Giovanni Gorno Tempini e lo ha indicato l’Acri (l’Associazione delle Fondazioni e casse di risparmio). Sono due nomine che incideranno sulle future privatizzazioni. E’ una partita che contrappone Mef e Chigi, Cdp e Mef, Draghi e Meloni, e due vecchi del sistema bancario italiano: Giuseppe Guzzetti e Fabrizio Palenzona. Da Cdp passa il nuovo mondo Meloni.
Chi non vorrebbe dirigerla? Una cassa da 281 miliardi di euro (è il risparmio postale) un patrimonio netto da 25.7 miliardi. Questa è Cdp. Ad aprile si conclude il mandato di Scannapieco, ex vicepresidente della Bei, ed ex direttore generale Finanza e Privatizzazioni del Tesoro. Non serve girarci intorno. Ha lavorato per anni con Draghi al Tesoro. L’ex premier si fidava e si fida di Scannapieco. Il Mef non più. La nomina del prossimo ad di Cdp spetta a Giorgetti, e Giorgetti non avrebbe nessuna intenzione di riconfermare Scannapieco. Ci sono due episodi che hanno provocato frizioni. Il primo. Una campagna pubblicitaria da oltre tre milioni di euro per lanciare le obbligazioni di Cdp mentre il Tesoro è impegnato a vendere Btp. Nell’ultima semestrale presentata da Cdp la raccolta netta di buoni fruttiferi e libretti postali è scesa di 934 milioni. Per chi lavora in Cdp sarebbe una delle ragioni che avrebbero spinto a emettere bond. La seconda frizione. Ci sarebbe stato un mancato coordinamento tra Poste-Cdp e Mef per quanto riguarda l’ingresso nel capitale da parte di Poste in Mediobanca avvenuto poche settimane fa. In Cdp il clima a fine mandato di Scannapieco è cambiato. L’anno scorso, Pierpaolo Di Stefano ha lasciato il suo incarico di adCdp equity per andare in Deutsche Bank. E’ il manager che ha gestito per conto di Cdp l’operazione Aspi (il ritorno di Autostrade in mano pubblica) e la fusione di Nexi e Sia. Era l’esperto di privatizzazioni, dossier di cui, già a gennaio, si tornerà a parlare. Luigi Ferraris, ad di Ferrovie, che Salvini vuole sostituire, proprio in virtù di questa cessione, può tornare in corsa e rimanere ad grazie ai privati. Il destino di Scannapieco è diverso. E’ un ad che è intervenuto poche volte sui quotidiani. Un intervento lo ricordano tutti. E’ la lettera spedita a Repubblica per difendere una nomina che si sta rivelando dirimente. E’ quella di Fabio Barchiesi, suo capo staff. Il titolo del quotidiano, a cui Scannapieco rispondeva, era “la straordinaria carriera di Fabio Barchiesi, il fisioterapista di Malagò, al vertice di Cdp”. Barchiesi ha un rapporto solido con il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, Fazzolari significa Meloni. Barchiesi lavora per la riconferma di Scannapieco. Ma Scannapieco non deve certo ricordare chi è e chi lo ha voluto. Sulla nomina, come già accaduto per le partecipate, potrebbe ripetersi il braccio di ferro tra Meloni e Giorgetti. Meloni, riconfermando Scannapieco, potrebbe avere un ad leale, che conosce Cdp, ma entrerebbe ancora in contrasto con Giorgetti. L’altro nome possibile, per Meloni, è un vecchio nome. E’ il manager che per primo ha creduto in lei quando tutti gli altri manager rifiutavano i suoi inviti alle kermesse. E’ Stefano Donnarumma, l’ex candidato a tutto, un anno fa (Enel, Terna) e rimasto ancora senza carica. Poi c’è il Mef. Il predestinato, per Giorgetti, è il presidente di Ita, Antonino Turicchi, ma è proprio Ita che può fare saltare la sua nomina. Ad aprile la cessione della compagnia aerea rischia di non chiudersi e a quel punto, al Mef, si preferirebbe scegliere lontano da Roma. Giorgetti vuole un nuovo Marcello Sala, il direttore che il ministro dell’Economia ha scelto e messo a capo della direzione partecipate, la nuova divisione del Tesoro. Viene escluso al Mef che Sala possa lasciare la direzione per andare in Cdp, ma c’è chi non lo esclude. A Milano, un manager che ha le caratteristiche di Sala, e che era già entrato nella corsa per guidare una partecipata, è Enrico Pazzali, presidente della Fondazione Fiera Milano. Questa partita non si decide solo a Roma ma anche al nord. Non c’è solo l’ad. Il presidente Cdp viene scelto dalle Acri (Associazioni delle Fondazioni e casse di risparmio) per vent’anni guidate da Giuseppe Guzzetti. Il suo presidente, in uscita, è Francesco Profumo, ex ministro del governo Monti. Era un candidato per la presidenza della Cdp se non fosse che a quella carica punta adesso Fabrizio Palenzona, presidente della Fondazione Crt, già ex vicepresidente di Unicredit. Palenzona e Guzzetti non si amano. Guzzetti ha già fatto sapere, a chi doveva fare sapere, che con tutte le sue forze, a costo di spendere le ultime, si opporrà alla nomina di Palenzona. Guzzetti ha 89 anni e propone per la carica di presidente Cdp, Giovanni Azzone. Il vecchio presidente di Acri si muove con l’antica libertà, una libertà che in Lombardia, nella Lega, tra i banchieri adesso è solo “sopportata”. Quanto raccontato è senza dubbio un grande gioco di nomi, di finanza, banche, ma al di là dei nomi, degli ad di Cdp, rimane una grande questione che Meloni dovrà evadere: qual è la politica industriale del governo? Cosa significa, come dice in queste ore il governo, ci “serve un fondo sovrano”? Che senso ha parlare di Tim rete nazionale e poi vendere a un fondo americano? Non è solo un gioco. Qui la Cassa è l’essere.
Carmelo Caruso