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Voto maggiorato e lista del Cda. Cosa non va del ddl Capitali e come la Camera può migliorarlo
Una riflessione punto per punto su elementi di debolezza e punti di forza del disegno di legge a sostegno dei mercati finanziari
Il Senato ha licenziato in prima lettura il disegno di legge Capitali. La palla passa alla Camera dei Deputati e non è escluso che ci possano essere correzioni. Considerati alcuni criticabili emendamenti approvati dal Senato, un supplemento di riflessione sarebbe auspicabile. Tre punti toccati dal Senato sono degni di nota. Il primo riguarda la disciplina delle azioni a voto multiplo e maggiorato e presenta aspetti poco coerenti con l’obiettivo di attrarre investitori nelle società italiane. Il secondo, sulle liste del consiglio, ha effetti diametralmente opposti all’obiettivo perseguito dal governo nel proporre il ddl Capitali, ossia quello di rendere più competitiva la piazza finanziaria italiana semplificando e sfoltendo le regole. Del terzo, infine, che concede al governo un’amplissima delega per rivedere la disciplina dei mercati finanziari con l’obiettivo appena indicato, va segnalato il rischio che le lobby più forti, già efficacemente attivatesi in Senato, ottengano norme di favore in sede di esercizio della delega, a danno degli interessi di lungo periodo del nostro mercato finanziario.
Il ddl ha ampliato la facoltà per le società di garantire agli azionisti di controllo un peso superiore al capitale investito in due modi: (1) elevando il numero massimo di voti che si possono attribuire a una speciale categoria di azioni da tre a dieci (c.d. voto multiplo, che può essere adottato solo prima della quotazione della società in borsa); (2) consentendo di attribuire fino a dieci voti invece che due al socio “fedele”, che detenga le azioni per almeno dieci anni (c.d. voto maggiorato, a disposizione sia delle società di futura quotazione sia di quelle già quotate). Nei fatti, solo i soci di controllo si avvantaggiano del voto maggiorato. L’intervento sul voto multiplo non desta di per sé particolari perplessità: non solo è in linea con le tendenze internazionali, ma non può di per sé ledere gli interessi degli investitori, posto che essi comprano le azioni a un prezzo che sconta le conseguenze attese del voto multiplo per la governance e la gestione della società. Nessuno ne è danneggiato purché, si noti, i presidi di legge e i controlli pubblici volti a evitare che l’azionista di controllo abusi della sua posizione siano mantenuti e, idealmente, rafforzati. Infatti, il vero rischio della separazione tra proprietà e controllo mediante l’attribuzione di un potere sproporzionato al socio di controllo è che questi sia ancor più incentivato a “rubare” ai soci di minoranza: se ho il 51 per cento delle azioni e rubo dieci euro, mi arricchisco di 4,9 euro, perché gli altri 5,1 passano solo da una mia tasca all’altra. Se ho il 5 per cento delle azioni (ma controllo la società grazie al voto multiplo), per ogni dieci euro che sottraggo alla società ne intasco 9,5: il furto o, con linguaggio meno crudo, l’estrazione di benefici privati diventa molto più redditizia.
La modifica in tema di azioni a voto maggiorato è più discutibile perché si applica anche alle società già quotate in borsa, che dunque possono decidere, con una delibera dell’assemblea straordinaria che solo sulla carta è rispettosa della parità di trattamento dei soci, di ampliare notevolmente il potere dei soci di controllo. Tra l’altro, il passaggio da due a dieci voti per azioni può essere deliberato anche dalle tante società italiane che hanno già adottato il voto maggiorato: in esse il socio di controllo ha più dei due terzi dei diritti di voto e dunque può ottenere l’ulteriore maggiorazione del voto senza dover cercare i voti delle minoranze. E’ forse anche in considerazione di ciò che il Senato ha previsto a favore dei soci di minoranza non consenzienti il diritto di recesso in caso di attribuzione di più di due voti. Ma il diritto di recesso è congegnato malissimo in Italia e tutela poco o nulla gli azionisti di minoranza (come ho spiegato sul sito FCHub il 9 marzo). Pertanto, i soci esistenti subiscono una modifica peggiorativa dei propri diritti e dall’oggi al domani si trovano a partecipare a una società caratterizzata da estrema separazione tra proprietà e controllo, con i maggiori rischi di espropriazione che ne conseguono, senza alcuna efficace tutela. Non proprio una ricetta sicura per attrarre capitali…
Il secondo intervento è quello sulle liste di candidati per il consiglio d’amministrazione. La versione approvata è meno punitiva di quella originariamente proposta dai relatori del ddl e criticata da più parti. Alcune delle stravaganti regole ivi proposte sono state espunte, ma resta fermo un impianto altamente dissuasivo dell’uso di liste del consiglio, specialmente grazie alla norma che dà maggiore spazio in cda alle liste di minoranza nel caso in cui la lista del consiglio risulti la più votata. La presentazione di liste da parte del consiglio uscente è coerente con le prassi seguite nei principali ordinamenti, inclusa l’Olanda, ossia il paese dove varie società italiane si sono trasferite per sfruttarne l’assai maggiore libertà statutaria. Tra queste c’è anche Cementir NV, la società quotata del gruppo Caltagirone il cui consiglio d’amministrazione, nell’aprile scorso, ha presentato all’assemblea la lista dei candidati da eleggere: il che è perlomeno ironico, considerato che il tema delle liste del consiglio come un problema da risolvere fu sollevato nell’estate scorsa, durante un’audizione in Senato, proprio del patron di quel gruppo.
Marina Brogi (CorrierEconomia, 25 settembre) ha giustificato un intervento sulle liste del consiglio sulla base dell’affermazione secondo cui all’estero esse hanno come contrappeso la possibilità di votare sui singoli candidati. Il testo approvato al Senato prevede questa possibilità, ma vi affianca una serie di altri paletti del tutto idiosincratici. E comunque sia, negli ordinamenti in cui vi è un voto sui singoli candidati, esso, a differenza che nel ddl, vale per i candidati di tutte le liste, non solo per quelli proposti dal cda. Infine, il governo è investito di una delega a rivedere il testo unico dell’intermediazione finanziaria (la c.d. legge Draghi), le norme del codice civile sulle società quotate e addirittura, a fini di coordinamento, il testo unico bancario e il codice delle assicurazioni. Ciò nella stessa logica del ddl Capitali, ossia di impulso alla quotazione mediante semplificazioni e razionalizzazioni, pur menzionandosi peraltro tra i principi di delega anche l’obiettivo di “rendere le imprese maggiormente attrattive per gli investitori internazionali”.
Sulla stampa, la delega è stata presentata anche come un modo per il governo di rimediare al pasticcio delle norme sulle liste del consiglio ma non sarebbe politicamente agevole eliminarle del tutto, ove la Camera, com’è auspicabile, non provvedesse essa stessa in tal senso. Se Camera o governo eliminassero la regola che attribuisce alle minoranze ulteriori seggi nel caso di vittoria della lista del consiglio sarebbe allora già un passo avanti. E se si volesse effettivamente andare nella direzione di garantire maggiori poteri ai soci nella scelta degli amministratori, nella logica di tutela degli azionisti propugnata da Marina Brogi, la strada sarebbe il voto individuale su tutti i candidati, senza distinzioni tra lista del consiglio e lista dei soci; e magari si potrebbe imporre la universal proxy, da poco introdotta negli Stati Uniti, ossia l’obbligo di includere anche i candidati delle altre liste nei moduli di delega per la sollecitazione del voto in assemblea.
Un’ultima considerazione: se è vero che vi sono ampi spazi per migliorare un sistema di norme frutto della stratificazione di interventi spesso mal coordinati tra loro e quasi sempre additivi rispetto alle regole preesistenti, vi è un serio rischio che, com’è appena avvenuto in Senato, specifici gruppi di interesse riescano a influire sui contenuti dei decreti delegati con soluzioni non coerenti con l’interesse generale. Il fatto che la proposta dei decreti legislativi spetti al ministero dell’Economia e delle Finanze garantisce che vi siano le competenze tecniche necessarie per vagliare rigorosamente ogni suggerimento più o meno interessato. Ma anche i tecnici più preparati talvolta nulla possono di fronte a pressioni politiche sufficientemente forti; e le dinamiche dei gruppi organizzati spingono a interventi sbilanciati verso la riduzione delle tutele a favore delle minoranze azionarie anche quando queste siano giustificate dall’esigenza di prevenire gli scandali finanziari (vedi Parmalat e Cirio, per citarne solo due). Un argine potrebbe venire dalla trasparenza: una consultazione pubblica sulle bozze di decreto legislativo, con l’impegno a non inserire modifiche significative se non seguite da un’ulteriore consultazione, ridurrebbe il rischio di fare scelte inopinate sulla spinta di interessi particolari.