Il racconto

Meloni è l'unica leader a intestarsi la mediazione per Kyiv. Per l'amico Viktor ora c'è l'Ecr

Simone Canettieri

Dopo una notte passata a parlare con Scholz e Macron, la premier vede Orbán e rivendica la svolta dei negoziati. Il gelo di Salvini sull'Ucraina arriva fino a Bruxelles

Bruxelles, dal nostro inviato. “La mediazione è andata bene: Viktor è uscito al momento del voto”, dice, e fa sapere, Giorgia Meloni quando la notizia “storica” (aggettivo usato da tutti i leader) del via libera del Consiglio ai negoziati per l’ingresso nella Ue dell’Ucraina fa impazzire le agenzie di stampa presenti qui al Palazzo Europa. Accade intorno alle 18.30. Dietro alla mossa dell’Ungheria ci sono, come si sa, una barca di miliardi di euro (dieci per mettersi seduta al tavolo, e poi altri  dieci, più fondi su fondi da sbloccare). Meloni in tutta questa scena si ritaglia un ruolo visibile (in quanto fotografico) e – rivendica – anche fattuale. Alla vigilia di questa giornata ha fatto le ore piccole prima con Emmanuel Macron (due ore) e poi anche con Olaf Scholz all’hotel Amigo. 


La mattina seguente ha visto “l’amico Viktor”, all’ottavo piano di questo palazzone di vetro e acciaio. Anche qui: sorridete, flash, clic.
La sedia vuota lasciata dal primo ministro di Budapest al momento del fatidico ok del Consiglio europeo potrebbe essere occupata sempre da lui all’interno della famiglia dell’Ecr, il partito dei Conservatori guidato da Meloni, in trattativa per accoglierlo nonostante le difficoltà, dopo le prossime europee. E questo è un elemento che gira forte dalle parti della leader di Fratelli d’Italia: un altro peso messo sul piatto della bilancia di una trattativa ampia. 


Dopo giorni di polemiche italiane sulla foto di Draghi sul treno per Kyiv, Palazzo Chigi prova a superare la faccenda con una chiave di lettura che suona così: la premier parla con tutti e si fa immortalare (in questo tripudio di fotocrazia) con tutti. Dunque la sera ecco lo scatto con i leader francesi e tedeschi in una notte di tentati accordi e brindisi (vino rosso e champagne, ma non ditelo al ministro Francesco Lollobrigida) e all’indomani c’è l’immagine con Orbán, all’ottavo piano del palazzone del Consiglio, negli uffici della sede italiana. Il tutto dopo che il premier ungherese è uscito da un vertice preparatorio con Ursula von der Leyen, Charles Michel, Olaf e Macron. Ma, attenzione, senza Meloni. La quale poi apparirà per un bilaterale abbastanza improvvisato con l’ungherese. Tutto calcolato, tutto voluto: “Ci hanno affidato il ruolo di pontieri”, è il messaggio che con forza vogliono far trapelare dal governo. Si piazzano bandierine, insomma.


Tanto che c’è una differenza sostanziale nel commento del via libera ai negoziati per l’Ucraina. Va letto il comunicato di Palazzo Chigi. Ecco la prima parte: “Giorgia Meloni esprime grande soddisfazione per i concreti passi avanti nel processo di allargamento raggiunti al Consiglio europeo per Ucraina, Moldova, Georgia e Bosnia Erzegovina”. Fin qui nulla di strano. Seconda parte: “Si tratta di un risultato di rilevante valore per l’Unione Europea e per l’Italia, giunto in esito a un negoziato complesso in cui la nostra nazione ha giocato un ruolo di primo piano nel sostenere attivamente sia Paesi del Trio orientale sia la Bosnia Erzegovina e i Paesi dei Balcani occidentali”. Chiaro, no? Confrontando le parole degli altri leader, a partire da Macron e Scholz, nessuno rivendicherà un ruolo “primario” nella risoluzione di questo rompicapo. Roma lo fa. Tra realtà e propaganda. Di sicuro la mossa di Meloni, la sua vicinanza fisica con il cancelliere tedesco e il presidente francese sono fatti importanti, che l’allontanano in patria ancora una volta dalla Lega.

E non solo perché il partito di Matteo Salvini non commenta la decisione del giorno o forse del mese o dell’anno, ma perché il Carroccio da sempre è stato molto freddo (eufemismo) su questa eventualità che è diventa realtà. Così come tutti i partiti che i primi di dicembre ha riunito a Firenze nel sabba delle estreme destre. Alla fine il sovranismo sembra rompersi e Orbán si mette fuori da solo (con le tasche piene) in una pantomima di mosse politiche e dichiarazioni sui social a uso e consumo della opinione pubblica interna.

Meloni dice che queste dinamiche non l’appassionano e che alla fine contano i risultati: pragmatismo. Il veto ungherese questa volta è saltato con “la politica della sedia vuota”. Ora c’è da capire se quello italiano di veto sul Patto di stabilità sarà solo un’arma per trattare fino alla fine o una possibilità concreta. Tutti dicono che l’accordo sia già chiuso e impacchettato al 90 per cento con l’Italia dentro e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti pronto al sì la prossima settimana in una riunione dell’Ecofin in videocollegamento (indizio interessante). Ma alla fine si negozia su tutto. A partire dal bilancio settennale. Con il dossier migranti, in termini di fondi propri, che Meloni vuole portare a casa. Le  europee si avvicinano, l’operazione Albania potrebbe non rientrare nei tempi pianificati. Occorre ottimizzare tutto.  

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.