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L'antifascismo da loggione

Pierluigi Battista

L’alto grido alla Scala è l’ultimo episodio che scredita una storia gloriosa. L’Anpi senza partigiani, il libro di Eco, l’“allarme democratico”. De Gaulle, Fanfani, Craxi, Berlusconi sempre buoni da additare come eredi del regime

Nel 2023 c’è il loggionista antifascista che sfida intrepido il ritorno del bieco ventennio incarnato dal pizzetto di Ignazio La Russa. Nel 1960 c’erano invece i portuali genovesi in piazza, armati di ganci da lavoro, che si scontravano con la polizia per impedire il congresso del Msi, il partito neofascista entrato nella maggioranza del governo presieduto da Fernando Tambroni. Ne seguirono tumulti, arresti, “morti di Reggio Emilia”, prodromi insurrezionali. Trovare la differenza: nel caso del loggionista antifascista il seguito si è materializzato solo nella goffaggine di due funzionari di polizia che hanno chiesto all’eroe i documenti e in una no stop televisiva dell’eroe con invito unificato in tutti i talk della giornata e il giubilo twittarolo del Pd. La storia dell’allarmismo antifascista a fascismo finito contiene mille cose, o forse solo due: la serietà e la frivolezza, il peso di una vicenda sanguinosa e il brivido trasgressivo a una prima della Scala, in diretta su Rai 1. La tragedia e la farsa, come sempre. O l’operetta, se vogliamo restare nei dintorni del loggione.

Già in un’altra occasione una prima della Scala fu funestata da un clamoroso incidente. Fu quando, sul palco reale, un addetto alla cerimonia aveva tirato troppo indietro la poltrona per far accomodare l’allora presidente Gronchi, il quale, preso di spalle e non rendendosi conto della distanza eccessiva tra il proprio corpo e il regale sedile, rovinò sul pavimento con uno storico tonfo che sbalordì tutti, melomani e loggionisti. Non si ha notizia su quale sia stata la sorte professionale del valletto maldestro. Si sa però che la coppia formata da Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, dopo aver fatto dell’increscioso episodio oggetto di puntuta satira nello sketch di un programma strepitoso che si chiamava “Un, due, tre”, subì la vessatoria censura della Rai monopolista (e neanche c’erano i fascisti al governo). Ma quello che il loggionista antifascista forse non sa è che, nel 1959, accanto a Gronchi sedeva Charles De Gaulle, un eroe della Resistenza antifascista, il generale che in assoluta solitudine (al momento non c’erano neanche i comunisti, ligi alle direttive del patto Molotov-Ribbentrop) da Londra invitava i francesi alla rivolta contro i nazisti che nel 1940 avevano espugnato Parigi, l’intransigente leader che condannò con il carcere a vita il vecchio maresciallo Pétain, colpevole di aver guidato il governo fantoccio collaborazionista negli anni dell’occupazione hitleriana. Che c’entra De Gaulle con il loggionista? C’entra, perché nella lunga storia dell’allarmismo antifascista senza fascismo persino un eroe della lotta antifascista come De Gaulle si trovò a essere accusato di essere un fascista, avendo semplicemente proposto una nuova Costituzione in senso presidenzialista per la Francia. Esempio illuminante di come nell’allarmismo antifascista la parola “fascista” abbia finito per dilatare i suoi confini fino al grottesco, anche l’artefice della “France libre” Charles De Gaulle divenne così, per una parte della sinistra italiana, l’alfiere di un nuovo fascismo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Come del resto fu accusato di essere un fascista (e pure golpista) il gollista Randolfo Pacciardi, già eroe della guerra di Spagna contro Francisco Franco, comandante del Battaglione (poi Brigata) Garibaldi. “La Francia diventerà fascista”, si disse in un convegno appositamente convocato dalla “Casa della Cultura” milanese guidata da Rossana Rossanda. Lelio Basso vide avanzare in Francia la lugubre “deriva reazionaria”. E addirittura Togliatti, mai una parola fuori posto, assecondò l’immagine fascistizzata di De Gaulle.

Togliatti, il leader che aveva voluto l’amnistia per i fascisti, che aveva accettato con disappunto la legge Scelba perché un giorno avrebbe potuto ritorcersi contro il suo partito, il maestro del realismo politico, anche lui decise di cedere alle sirene dell’allarmismo antifascista del post-fascismo. All’idea che il pericolo fascista sia sempre in agguato, che il fascismo non morirà mai una volta per tutte, che prima o poi, più prima che poi, ci avrebbero riprovato, che la vigilanza antifascista non debba allentarsi mai. Nel ‘44, nell’Italia liberata, fece capire a Benedetto Croce quale sarebbe stato il trattamento per chi si fosse messo contro il Pci: nel fascismo Croce “ha avuto una curiosa situazione di privilegio, istituendosi tra lui e il fascismo un’aperta collaborazione, prezzo della facoltà che gli fu concessa di arrischiare ogni tanto una timida frecciatina contro il regime”. Dimenticando, o volendo dimenticare, che a differenza degli stuoli di zelanti intellettuali fascisti che a fascismo caduto erano transitati sotto l’ombrello protettivo del Pci, almeno Croce si era rifiutato di sottoscrivere un immondo questionario dove gli accademici dovevano attestare l’assenza di ogni genere di legame con l’ebraismo (Giorgio Amendola dirà che quella di Togliatti era stata “una violenza calcolata”). Ma quando il leader della Dc Alcide De Gasperi tornò dall’America per rompere la coalizione di governo ciellenista post-resistenziale, subito il gesto degasperiano venne visto come un attentato all’“unità antifascista”, sicuro indizio di una incipiente tentazione fascista. L’allarmismo antifascista senza fascismo stava prendendo forma. Le stesse celebrazioni unitarie del 25 aprile, come ha scritto lo storico Giovanni Belardelli, si spezzarono in due e la Liberazione cominciò a essere  commemorata separatamente. “Clerico-fascista” divenne termine usuale per definire il dominio democristiano: clericale certamente, ma fascista? Quando si affacciò l’ipotesi di un’elezione di Amintore Fanfani al Quirinale si coniò l’espressione “fanfascismo” a cui Luigi Pintor dedicò tonnellate di fulminanti corsivi. Nei cortei della sinistra extraparlamentare, mentre si stava delineando la strategia del compromesso storico, si gridava polemicamente “Msi fuorilegge, a morte la Dc che lo protegge” (da notare che il Pci post-togliattiano mai aderì alla campagna per la messa fuorilegge del Msi, anche nel periodo più furibondo dell’“antifascismo militante”). E quando morirà la Dc? Quando morirà la Dc il nuovo bersaglio dell’allarmismo antifascista senza fascismo diventerà un magnate della tv. E anche la tv divenne, inopinatamente, un po’ “fascista” (del resto Roland Barthes aveva sostenuto che anche il linguaggio è un po’ “fascista”).

Umberto Eco ha scritto molti libri meravigliosi, ma è anche responsabile di averne scritto uno, nell’anno II dell’èra berlusconian-fascista, destinato a sconvolgere il significato stesso delle parole “fascismo” e “fascista”: “Il fascismo eterno”. Un fascismo senza tempo, infinito, perpetuo. Dal fascismo storico-politico (per dire: soppressione della libertà d’espressione, carcere, confino, esilio e olio di ricino per chi dissente, fine dei partiti, tribunali speciali, milizie armate del partito al potere, discriminazione degli ebrei) si passa alla condanna del fascismo antropologico e psicologico. Non più un’ideologia ma un carattere, una mentalità, un modo d’essere e di essere cialtroni che attraversa tutta intera la storia dell’Italia, pre e post unitaria. E soprattutto degli italiani, così tarati da aver reso il fascismo il loro specchio (la loro autobiografia), egoisti, ringhiosi, piccini, astiosi, inaffidabili, ricapitolazione di tutti i vizi nazionali, servili e sempre bisognosi di un Capo (Giorgio Bocca arrivò a definire la Controriforma “protofascismo”), naturaliter fascisti, arci-italiani, incantati dalla telecrazia. E se è eterno il fascismo, deve essere anche eterno il vigile antifascismo dell’Italia civile, “l’Italia che ci piace”, l’Italia anti-italiana che suona l’allarme, scopre il fascista che è in noi, condanna, mobilita, non dà tregua, nemmeno alla prima della Scala.

E così, con la fine della Prima Repubblica, dopo Amintore Fanfani satirizzato con la divisa del “fanfascista”, dopo Bettino Craxi rappresentato con gli stivaloni e la camicia nera, dopo le scritte su Cossiga che sostituivano le due esse del cognome con quelle stilizzate nella fosca grafica delle SS naziste, tutti fascistizzati e nemici della democrazia antifascista, ecco all’alba della Seconda Repubblica Berlusconi raffigurato con il fez del “Cavaliere Nero” (non quello di Gigi Proietti, un altro meno simpatico). E da lì un crescendo incontrollato di allarmismo antifascista, alimentato dalla certezza di un’Italia pronta per essere proditoriamente scaraventata nel buio di una nuova tirannia fascista. Si rianimarono le celebrazioni del 25 aprile, oramai diventate stanche e rituali cerimonie, tutto uno sbadiglio di vuota retorica con i gonfaloni, le divise e i sindaci con fascia tricolore. E a Milano, il 25 aprile 1994, le folle antifasciste nuovamente galvanizzate nel loro impeto anti-dittatoriale applaudirono addirittura Bossi, trasfigurato improvvisamente come “costola della sinistra” solo perché (“mai con i fascisti”) sotto un colossale acquazzone (progenitore delle bombe d’acqua) si era unito al corteo. Riscoprirono le vibrazioni oramai un po’ appannate di “Bella ciao”. Una pessima battuta di Berlusconi sul confino a Ventotene divenne la prova provata che eravamo tutti alla vigilia di una nuova marcia su Roma. Nella cultura della sinistra si aprirono furiosi dibattiti per stabilire se la dittatura berlusconiana fosse da intendersi come fotocopia dell’Italia fascista del ’23 ovvero del ’25, visto che non si era ancora consumato un nuovo delitto Matteotti che consentisse una datazione più precisa. I più prudenti, consapevoli dell’arditezza del paragone storico preso troppo alla lettera, definirono il regime berlusconiano come un “fascismo 2.0” (adesso è diventato “fascismo 4.0”: cambia la numerazione ma la sostanza mussoliniana resta la stessa). Poi, nel 2009, la svolta: il 25 aprile il Berlusconi premier si presenta a Onna, epicentro del terremoto in Abruzzo, con il fazzoletto partigiano al collo. Sembra la purificazione, la riconciliazione, la fine del pericolo fascista, ma il caso Ruby, esploso di lì a pochi giorni, riprecipiterà Berlusconi nell’inferno della delegittimazione democratica.

Alla fine l’allarmismo antifascista sui pericoli di un imminente rigurgito fascista si fa maniera, tic, gesto, polemicuccia, tweet, degenerando in una mania che toglie all’antifascismo la sua stessa grandezza e necessità. E se nella Prima Repubblica l’ossessione allarmistica colpiva i voluminosi studi storici di Renzo De Felice, scomunicati da Nicola Tranfaglia come “una pugnalata”, un veleno micidiale destinato a “produrre tra i giovani guai assai gravi” (nientemeno), ora, nell’èra meloniana, l’anatema viene scagliato contro Enrico Montesano che si presenta a “Ballando con le stelle”, da cui verrà espulso con ignominia, con indosso una t-shirt della Decima Mas. L’Anpi, ahinoi anagraficamente svuotata della presenza dei partigiani che hanno veramente combattuto in armi contro il fascismo, si riempie di giovani che parlano con la spocchia ex cathedra come se fossero stati in montagna a rischiare la pelle, e non a sciare. Desta scandalo e vigilanza democratica uno stabilimento balneare di Chioggia il cui proprietario si lancia in proclami a favore di Mussolini. Torna l’attenzione vigilante e allarmata sui nostalgici sempre più prigionieri del loro patetico folclore che si aggirano per Predappio in consunte camicie nere. In un concerto a Verona viene fischiato Al Bano, non si capisce perché tacciato di “fascista”. Al Salone del libro viene per la prima volta nella sua oramai pluridecennale storia smantellato lo stand di una casa editrice di destra, con i cortei che cantano “Bella ciao” nei corridoi del Lingotto. Ogni 25 aprile partono gli esegeti che soppesano severamente toni e parole delle dichiarazioni antifasciste di chi ha molti scheletri nel suo armadio: ma non gli basta mai. E legioni di giornalisti, preoccupati per il montare di apocalittiche “onde nere”, vengono sguinzagliati in giro per l’Italia per andare a stanare in qualche minuscola frazione di qualche minuscolo comune di una minuscola provincia il mitomane che si fa immortalare nel saluto romano, tenendo nella mano libera la fiaschetta con sopra attaccata la foto del duce. Ora, alla fine, il martire loggionista. Come screditare una storia gloriosa.

Comunque, il fascismo dopo il fascismo non è mai arrivato a destinazione, merito dell’allarmismo antifascista o forse perché il pericolo fascista non è mai stato vero (propenderei per la seconda). E l’antifascismo che si fa perenne allarmismo antifascista si è trasformato in una serie infinita di banalità. Ma se poi, potenza dell’ipocrisia, si passa dalle quisquilie alle tragedie, dalle polemicucce di condomino alle svolte epocali nella storia del mondo, i perenni vigilantes, chissà perché, smettono con disinvoltura ogni forma di allarmismo democratico e silenziano ogni genere di allarme per la sorte dei bambini ebrei sgozzati il 7 di ottobre, per le donne ebree stuprate, per le case degli ebrei bruciate una ad una come nella Polonia del ’39, per i cortei “Gas the Jews”, per le università americane in cui gli studenti ebrei vengono umiliati. Per la disumanizzazione, in effigie e nelle sinagoghe assediate, dell’ebreo colpevole di ogni turpitudine. Certo, per carità, da condannare. Sì. Però. Dipende dal contesto.

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