Il caso
Conte manda Meloni dal Giurì e si sente il visir dei progressisti: Schlein avvisata
Il capo del M5s attacca la premier (che non gli risponde) e nel frattempo logora la leadership della segretaria dem
Porta l’onorevole Meloni davanti al Giurì della Camera e nel frattempo punta a diventare il gran visir dei progressisti. Non gli basta essere il sultano del M5s, Giuseppe Conte ha capito che la leadership di Elly Schlein può essere come la pasta Luisona del “Bar Sport” di Stefano Benni: puramente coreografica e non va né su né giù. E allora di prima mattina alla Camera si candida a punto di riferimento fortissimo dell’antimelonismo. Ci sta riuscendo. Intanto l’ex premier a casa, sopra il camino, tiene in bella mostra la collezione degli ex segretari del Pd che ha fatto secchi: Zingaretti e Letta. Adesso vuole Schlein. A Palazzo Chigi dicono: “Non gli replichiamo, cerca solo visibilità”. Ma intanto eccoci qua a raccontare Conte bum-bum.
Se Chiara Ferragni dopo la stoccata della premier ad Atreju sui pandori Balocco piange, chiede scusa e dice che donerà un milione di euro all’ospedale Regina Margherita, Conte si mette i guantoni. E a Meloni ricorda l’ovvio: l’avversario sono io, non Elly, è la linea del capo grillino. Il quale – specialità della casa – impugna un regolamento della Camera (“secondo l’articolo 58...”), scrive al presidente Lorenzo Fontana, avvisa il Quirinale e si dice pronto a portare la premier, in qualità di deputata, davanti al Giurì d’onore di Montecitorio. Perché “mente, disonora me, il governo e gli italiani”.
E quindi dovrà essere censurata o ammonita. Il caso è quello sollevato per primo dal Foglio: la scorsa settimana durante le comunicazioni del governo in vista del Consiglio europeo, Meloni ha sventolato un “fax” sul via libera dell’Italia al nuovo trattato del Mes. “Ha sostenuto che il mio governo ha dato l’ok alla riforma del Mes senza un mandato parlamentare, con il favore delle tenebre, quando si era ormai dimesso. Meloni ha mentito, consapevole di mentire. Peraltro era in quel Parlamento quando, nel dicembre del 2020, c’è stato un ampio dibattito conclusosi con una risoluzione”. Nel merito il documento agitato dalla premier era quello con il quale l’Italia diede mandato all’ambasciatore permanente a Bruxelles di trasmettere il sì del governo era datato 20 gennaio, ma con Conte totalmente in carica e non dimissionario. Adesso Fontana verificherà se ci sono gli estremi per attivare la commissione. Ipotesi molto realistica, con il ruolo che sarà ricoperto da Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera in quota Forza Italia. Chi lo conosce sa che l’ex giornalista, rispettando alla lettera i regolamenti, si divertirà prima di stilare la sua relazione in punta di fatti e diritto parlamentare. E’ anche vero che l’ultimo precedente, quello di Giovanni Donzelli “inciampato” nelle rivelazioni del sottosegretario Andrea Delmastro sui colloqui fra l’anarchico Alfredo Cospito e una delegazione di parlamentari del Pd, fu un grande buco nell’acqua. Questo lo sa anche Conte, forse. Ma l’importante è esserci. Dire a Meloni che “è il Nulla”, che quando lo ascolta “diventa paonazza”. E soprattutto per pungicarla sul Mes: cosa farà quando alla fine la ratifica finirà in Parlamento? Conte, come ha confessato a questo giornale, non lo voterà. Con una bella capriola di coerenza: oplà. “Altro che logica a pacchetto, questo è un pacco e io non lo voto”. Anche la ratifica del regolamento del Meccanismo salva stati scaverà un solco fra il M5s (contrario) e il Pd (favorevole). E qui entra in campo il missile contiano a doppio gittata. A chi gli chiede se Schlein può essere federatrice risponde di sì “ma delle correnti del Pd”. “Agli ingegneri dem”, cioè i padri nobili del partito che si sono riuniti nel fine settimana a Roma, ricorda che nessuno di loro ha fatto mea culpa. Tra loro, spiega l’ex premier grillino riferendosi a Enrico Letta, c’era “chi voleva il nostro assassinio politico, e ha portato allo sfascio la campagna elettorale disastrosa del Pd”.
Conte si presenta in conferenza stampa carico a molla: “Domande?”. Poi se la prende un po’ bonariamente con i cronisti, porge quesiti retorici ai giornalisti senza rispondere. Sul Mes fa l’anguilla. E appena può: punge Meloni e graffia Schlein anche sulla politica estera: dall’Ucraina al medio oriente. Pochette d’acciaio, un partito che lo non discute ma lo venera: ecco il Conte gran visir. Visto che alla fine gli viene nominato Mario Draghi, e il di lui futuro all’interno delle prossime istituzioni europee, morde anche l’ex banchiere: “Su questo non ci pronunciamo perché noi siamo rimasti ancora all'agenda Draghi, la vorremmo leggere prima. Noi siamo all'antica, siamo ancora a quel punto”. Modalità toro scatenato, non ottiene soddisfazioni formali dalla presidente del Consiglio: in “off” dice che sempre che non vuole rispondergli, poi alla fine lo attacca in pubblico. Ma il capo M5s soprattutto manda in fibrillazione il Pd. Ieri mattina tutto il Nazareno era curioso, quanto nel panico, da questa conferenza stampa: cosa dirà? Lette le prime dichiarazioni, ceffoni ben assestati contro il quartiere generale, la replica è stata: “Non attacchiamo le opposizioni”. Il partito ribolle di orgoglio e amor proprio, Schlein sa che non può mettere in discussione l’alleanza alle regionali essendo il primo partito, quello che guida. E Conte intanto spolvera la terza foto da appendere sopra al suo caminetto.