Il colloquio

“Meloni deludente ma promossa”. Parla Francesco Giavazzi

Claudio Cerasa

Il braccio destro di Draghi a Chigi spiega perché la premier guida il governo delle occasioni perse

Da uno a trenta? Ventidue”. Dunque, promossa. “Promossa, sì. Ma sono deluso”. Deluso per cosa? “Parlo dell’economia”. E di cosa si parla? “Parlo delle occasioni che avevamo e che non abbiamo colto. Delle opportunità che erano di fronte a noi e che non abbiamo visto. Dell’incapacità di alzare l’asticella verso l’alto accontentandoci di non fare danni piuttosto che di progettare in grande”. Francesco Giavazzi, docente di Politica economica alla Bocconi di Milano, braccio destro dell’ex premier Mario Draghi a Palazzo Chigi tra il 2021 e il 2022, accetta di dialogare con il Foglio sull’anno che è stato, per il governo, e prova a ragionare insieme con noi sull’anno che verrà. Il governo, dice Giavazzi, è promosso, non ha combinato danni enormi, neppure il pasticcio sul Mes è così grande da far cambiare la reputazione del governo Meloni, ma ciò che ha colpito Giavazzi nell’anno che si chiude rispetto all’azione di governo è la lontananza scelta da Meloni dagli obiettivi ambiziosi, dalla volontà di provare a declinare una propria idea di Europa.

 

Il Patto di stabilità, dice Giavazzi, è un esempio plastico di questa incapacità di progettare il futuro e dell’arrendevolezza del governo quando si tratta di provare a indicare all’Europa, sulle partite che contano, una strada da seguire. Nulla, zero, briciole, bruscolini. “Con tutto il rispetto per i microdettagli negoziati sul Patto di stabilità, credo che il governo abbia perso l’occasione, in questa partita, per dimostrare di avere le idee chiare su una serie di temi cruciali per il nostro futuro. Non ho sentito nulla di convincente sulla transizione ecologica. Non ho visto un obiettivo concreto sulla difesa comune. Non ho visto un’attenzione reale, nell’agenda italiana, al grande tema della competizione che gli Stati Uniti stanno lanciando sugli investimenti green. Piuttosto che cercare un modo di avere regole più elastiche fino alla fine di questa legislatura, che mi pare purtroppo l’unico obiettivo raggiunto dal ministro Giorgetti nel negoziato europeo, mi sarei aspettato di vedere l’Italia battagliare per temi più importanti. Per esempio: se gli Stati Uniti mettono in campo 100 miliardi di dollari per attrarre le imprese, è possibile rimanere a guardare occupandoci solo delle minuzie? Mi sarei aspettato di vedere l’Italia in prima linea in Europa per rilanciare un nuovo piano europeo di investimenti, simile al New Generation Eu. Mi sarei aspettato di vedere un paese desideroso di programmare i prossimi dieci anni, non i prossimi sei mesi. Mi spiace, ma sono deluso”. Non così tanto però da bocciare il governo. “Non avevo aspettative del tutto negative su questo presidente del Consiglio. D’altronde come potrebbe essere altrimenti? Un esecutivo forte, una maggioranza solida, una prospettiva di governo a lungo termine in un contesto europeo frammentato, a volte sfilacciato, dove le leadership forti faticano ad affermarsi. La presidente Meloni è stata tanto migliore quanto più era lontana da Roma. In giro per il mondo, si è affermata, ha trovato un modo per rafforzare la sua reputazione, si è fatta apprezzare in diversi contesti internazionale. I problemi per la premier nascono però quando torna in Italia: non c’è stato il salto, non c’è stata una maturazione e non mi sembra vi sia una classe dirigente attorno alla premier in grado di sostenerla nel suo percorso di crescita”. 


Pensa al Mes? “Mi sembra un caso simbolo. Non penso che sia la spia di una improvvisa inaffidabilità dell’Italia, non è così e non mi sembra che gli osservatori internazionali siano particolarmente preoccupati per la scelta fatta dall’Italia. Certo, non si fa una buona figura, si aggiunge un elemento di inaffidabilità sul proprio profilo. Ma la questione è un’altra. Mi sembra, questa scelta, la spia di un metodo di governo che onestamente non mi convince. Non vuoi ratificare il nuovo Mes? D’accordo. Ma allora fallo alzando l’asticella. Mostrando qual è l’Europa che sogni. Ponendo ai tuoi partner sfide concrete per far crescere l’Europa. Indicando nuovi strumenti per portare avanti il percorso di integrazione. Non è stato fatto nulla di tutto questo e  la reputazione del paese, e di Meloni, possono subire un colpo non per la scelta in sé ma per come è stata costruita. Un flop, mi spiace”. Solo questo o tutto l’anno? Professore, ha dato la sufficienza alla premier. “La promuovo sull’economia. Ha tenuto a freno gli appetiti del Parlamento, ha mostrato responsabilità sui conti pubblici, non ha permesso ai suoi alleati di spendere e spandere sulle pensioni, ed è riuscita a portare avanti alcune partite industriali importanti come la cessione di Ita a Lufthansa, che sono convinto finirà bene. Su questo c’è stata onestamente anche continuità con il governo precedente”. Sento che c’è un però. “Il però è legato alla debolezza della politica industriale. La rete unica è importante, strategica, ma la formula scelta non mi convince: la soluzione giusta era nazionalizzarla e poi riordinare il settore. Stesso discorso per Ilva. E’ una delle più importanti sfide per il governo nell’anno che verrà e ho paura sia una sfida la cui portata non è stata compresa fino in fondo dal governo. Vi è un investitore, Mittal, che non vuole investire e che vuole tenere l’ex Ilva sostanzialmente ferma per evitare che possa creare problemi al proprio business nel resto d’Europa. Il governo dovrebbe avere il coraggio di nazionalizzare Ilva e ricominciare da capo. Non vedo alternative”.

 

In cosa vede il professor Giavazzi una netta discontinuità con il governo che ha a lungo frequentato? “Vedo continuità, per ora, per fortuna, sulla politica estera, sull’Ucraina, e mi auguro non ci siano sorprese nell’anno che verrà. Vedo meno continuità, purtroppo, sul modo in cui Meloni si muove in Europa. Contiamo poco, abbiamo poche idee e confuse, il nostro ministro dell’Economia, di cui ho stima, viene spesso informato a cose fatte, come è successo sul Patto di stabilità, e sulle partite che contano il problema del presidente del Consiglio non è tanto l’essere coinvolta meno del suo predecessore ma è quello di avere poche idee per indicare una direzione. Il governo Draghi, per esempio, ha avuto un ruolo nell’indicare all’Unione europea una direzione da seguire sul tema dell’allargamento, anche all’Ucraina. Mi piacerebbe nell’anno che verrà vedere Meloni andare in Europa non a battere i pugni, come si dice, ma   a mostrare con l’indice un percorso, un sogno, un obiettivo diverso dall’interesse particolare e a breve termine, dalla ricerca del consenso immediato”. Eppure l’Italia (da uno a trenta, ventidue) nell’anno che si conclude è cresciuta più del previsto, ha creato più occupati del previsto, ha ottenuto risultati economici migliori delle aspettative. Dettagli? “Non sono dettagli, ma sono fatti che dipendono più dal contesto generale, la crescita dell’America per esempio, che dal contesto particolare. Resto convinto, a proposito di crescita, che l’Italia, per pensare alle sue politiche espansive, dovrebbe dedicare il massimo dell’attenzione al Pnrr e mi auguro che il governo ora che ha un Pnrr tutto suo, diciamo così, mostri responsabilità ed eviti di riportare il Piano nazionale di ripresa e resilienza a un passo dal disastro. Voglio essere ottimista”. Ottimisti intanto sono gli investitori, a quanto pare. Le borse, nell’anno in corso, in Italia sono andate bene. Lo spread è rimasto sotto controllo e lo è stato anche ieri nonostante la figuraccia del Mes. “La stabilità è un fattore cruciale e agli occhi degli investitori questo è un valore aggiunto per il governo. Ma la stabilità è un valore se accanto a esso vi è la crescita. E purtroppo su questo mi sento di dire che non vi è una continuità rispetto al governo precedente. Con Draghi si cresceva tra il 3 e il 4 per cento. Oggi siamo tornati all’Italia dello zero virgola. Sarà la crescita la grande partita che dovrà giocare Meloni nel prossimo anno. E mi auguro per l’Italia che la Banca centrale europea possa dare un po’ di sollievo all’Europa non insistendo più del dovuto con la politica dei tassi alti. L’inflazione, nel nostro continente, sta scendendo velocemente, nel giro di cinque o sei mesi arriverà intorno al due per cento, ed essere eccessivamente cauti sui tassi oggi non mi sembra  sinonimo di essere anche lungimiranti”. C’è qualcosa che il governo Meloni dovrebbe capire con urgenza prima che sia troppo tardi? “Dovrebbe dotarsi di una classe dirigente all’altezza delle sfide dell’Italia. Dovrebbe rendersi conto che l’amministrazione dei ministeri non può essere lasciata ai famigliari e agli amici di partito. E capire che un paese non si governa solo con le persone di cui ci si fida, con le persone leali, ma anche con le persone di qualità, che quando sbagli non hanno paura a dirtelo”. C’è una riforma di destra che la destra di governo dovrebbe fare per riuscire a essere contemporaneamente coerente con se stessa e non incoerente con l’interesse nazionale? “Abbassare le tasse tagliando la spesa pubblica, ma purtroppo non mi sembra sia la stagione per tagliarla”. E dunque? “Visto che la sinistra considera di destra la concorrenza, sarebbe una rivoluzione per l’Italia avere una destra desiderosa di migliorare l’efficienza del paese a colpi di concorrenza. Un esempio positivo è stato certamente sul fronte energetico l’uscita dal mercato tutelato, sperando che la piccola proroga approvata dal Parlamento non diventi nuovamente eterna, ma purtroppo anche su questo fronte non sono ottimista, considerando che questo governo di fronte al primo bagnino che si alza e protesta si mette paura”. Due sfide impossibili. Sfide possibili?  “L’innovazione. Ricordo che alla fine del governo Draghi Intel decise di collocare in Europa due investimenti importanti. Uno in Germania, l’altro in Italia. L’Italia si è dimenticata di questo investimento e Intel si è dimenticata dell’Italia andando a investire in Polonia. Lo so. Essere prudenti sul debito, essere responsabili sull’Ucraina, non essere irresponsabili in Europa, essere stabili sono elementi importanti e qualche merito a questo governo va riconosciuto. Parlo ovviamente dell’economia, non di altri temi, come quelli relativi alle libertà personali, per esempio, dove il mio sentimento più che di delusione è di contrarietà. Ma restiamo in questo campo, viste le premesse, viste le aspettative, viste le sfide europee, viste le ambizioni della premier, viste le occasioni del 2023 permettetemi di dire che il governo di oggi più che essere l’esecutivo delle grandi speranze mi pare essere l’esecutivo delle occasioni perdute. Promossi, sì, delusi anche”.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.