L'editoriale dell'elefantino
Javier Milei, el loco iperliberista
Cosa dice al keynesianissimo occidente la guerra del nuovo presidente argentino contro stato, welfare e sindacati
Il presidente argentino Javier Milei è più di un populista, è un matto populista, un loco populista, ma ha decretato la fine del populismo nel suo paese, che ne è l’archetipo mondiale (peronismo). Si capisce poco, ovviamente, di quanto effettivamente succeda lì, perché la motosega contro la spesa pubblica, la svalutazione al 50 per cento del peso, sopra tutto il decreto di necessità e urgenza per la deregolamentazione iperliberista dell’economia, welfare compreso, si presentano come promesse e come minacce allo stesso titolo. La mobilitazione contro questa politica radicalissima e il contrasto parlamentare e giudiziale prevedibili, oltre che una diffidenza eventuale proprio dei mercati, potrebbero prima di tutto paralizzare la capacità decisionale del Loco in Chief. Passasse anche solo il 25 per cento della sua proposta e decisione politica, il cambiamento sarebbe fortissimo, fino a ieri inimmaginabile. Bisogna tenere conto del fatto che Milei, a chi gli domanda che cosa pensi di Keynes, risponde: “Un delinquente”. Non è proprio nel mainstream mondiale, non è proprio un pupillo dell’establishment, el Loco, e questo carattere rivoluzionario dell’ennesimo esperimento neoliberista sembra fatto apposta per risuscitare l’ideologia antistatalista e anticorporativa o per seppellirla definitivamente, forse. Bisognerebbe conoscere bene quel paese, che non si conosce neanche da solo, ma questo è impossibile qui. Di sicuro c’è che le ricorrenti crisi argentine, e sistematiche, sono il portato di decenni di corporativismo e sindacalismo peronisti, e di una classe dirigente borgesiana e labirintica, anche di pseudoliberali mascherati, che ha tenuto fede al programma di finanziare a spese dello stato, interamente, il progresso della nazione.
Ciò che è risultato illusorio, viste le condizioni disperanti, non solo dalla parte dell’indice di inflazione, di un luogo che non è privo di grandi potenzialità e si consuma nella più totale impotenza e nella corruzione profonda della politica come compravendita di benefici che poi non si rivelano tali. Ora è il momento dello sbattimento di pentole, delle manifestazioni di piazza, dell’assalto dei costituzionalisti al decretazo, e si vedrà nel medio termine, se non a breve, come il tutto vada a finire. Che cosa significa tutto questo? Perché il mito della guerra allo stato fiscale, alle sue istituzioni, al suo immobilismo assistenziale, alla profonda ingiustizia del suo fondo corporativo, e il rilancio folle dei diritti di proprietà, d’impresa privata, di mercato, oltre ogni limite dell’immaginazione politica, fino alla dollarizzazione dell’economia argentina, sono ancora vivaci al punto di dotarsi di un presidente di un grande paese sudamericano certo di potere fare quel che ha detto, cioè un’enormità iperliberale?
L’insurrezione del common sense thatcheriano risale alla fine degli anni Settanta, e fu resa possibile da un socialismo welfarista che aveva alla fine depotenziato l’economia britannica e scansato ogni vera voglia di intraprendere, di fare, di cavarsela nell’emulazione, nella concorrenza, nella competizione. La Thatcher non vedeva la società, le era estranea, vedeva solo gli individui. E ha fatto parecchio per il loro empowerment, per farli diventare azionisti popolari di sé stessi, per stimolare crescita e ricchezza, con l’incremento di alcune diseguaglianze come conseguenza, ma non unica, di un progetto esteso in breve anche alla madrepatria, agli Stati Uniti dell’ottimista e liberista Ronald Reagan. Milei è forse un residuo fuori tempo, dopo la famosa crisi della globalizzazione dei mercati, di quel processo? O è un fatto nuovo, come direbbe il suo comportamento che non è quello di una figlia del droghiere divenuta profeta della classe media in un partito di governo molto tradizionale e molto ma molto messo sottosopra? Che cosa è vivo e che cosa è morto della speranza che, senza lo stato, il quale sarebbe il problema e non la soluzione, senza la concertazione sindacale costrittiva, senza l’assistenzialismo come programma unico della spesa pubblica, senza tutto questo e senza le istituzioni del compromesso interclassista, si può alla fine star meglio, come individui, come società anche, dopo una stagione di crisi che Milei, lochissimo ma sincerissimo, non nega affatto, anzi preconizza mentre vara il decretazo antiregolamentazione? Si è parlato per decenni, molto anche a vanvera, di liberismo sfrenato, e l’etichetta è stata appiccicata a politiche pubbliche e deregolamentazioni molto blande da questo punto di vista. Ora è arrivato al potere a Buenos Aires. Che cosa significa per il welfare americano ed europeo, per la finanziarizzazione dell’economia, per il keynesismo del debito buono, per i balneari o per i tassisti o per le start up, anche solo per fare un qualche esempio? Milei sembra una pezza a colori sul disastro argentino, a prima vista, ma forse la domanda va posta. Chissà.