La lettera della ministra
È ora di chiamare i fatti del 7 ottobre in Israele con il loro nome: femminicidio di massa
Si discute spesso di possesso, di incapacità maschile di confrontarsi con la libertà femminile, di parità e differenza. Finalmente la violenza contro le donne è diventato un tema centrale nel dibattito politico. Ma ci sono silenzi, in politica, che colpiscono
Al direttore – La violenza contro le donne – quel tipo di violenza specifico, esercitato sulle donne in quanto tali – è diventato, finalmente, un tema centrale nel dibattito pubblico, non più confinato nelle pagine di cronaca nera o affidato a commenti di qualche femminista. Si discute di possesso, di incapacità maschile di confrontarsi con la libertà femminile, di parità e differenza. È un segnale molto positivo, che indica l’inizio di un cambiamento: ci sono mali che per essere sradicati hanno bisogno di consapevolezza, di una profonda e diffusa presa di coscienza, e la violenza contro le donne è uno di questi. Questa consapevolezza, però, dovrebbe prescindere dalle pulsioni ideologiche e anche dalle opinioni politiche. Poiché a essere minacciata è la libertà delle donne, insieme al loro corpo e alla loro stessa identità, nel contrastare la violenza si dovrebbe innanzi tutto impegnarsi a farlo senza silenzi, senza omissioni, ambiguità, discriminazioni. E invece ci sono silenzi che colpiscono.
Lo scorso mese di novembre, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ho scritto una lettera aperta alle organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani e di diritti delle donne, da Un Women ad Amnesty international, affinché venissero spese parole di verità su cosa è stato fatto il 7 ottobre alle donne israeliane da parte di Hamas. A prescindere da cosa si pensi del conflitto in corso, a prescindere da qualsiasi opinione politica e dalla simpatia o meno per i governi in carica.
Prima di quel momento c’erano state alcune prese di posizione nette e incisive, come quelle delle femministe francesi di Paroles de femmes. Dopo quel momento ci sono state nuove inchieste e altre rivelazioni agghiaccianti, come quelle del New York Times, e importanti iniziative come l’appello “Non si può restare in silenzio” promosso da Andrée Shammah, Silvia Grilli, Alessandra Kustermann, Manuela Ulivi e Anita Friedman, che ha già superato le sedicimila firme e anch’io ho sottoscritto. Nel mezzo, in Italia, una manifestazione contro la violenza che non soltanto alle violenze del 7 ottobre non aveva inteso dare voce, ma aveva associato alla lotta contro gli stupri e i femminicidi una presa di posizione contro lo stato di Israele e a favore del popolo palestinese, in base a “una visione antimilitarista che ci permette di evidenziare come i conflitti armati siano l’espressione più terribile della violenza patriarcale”. Una decisione che aveva creato profondo disagio in tante donne che quel giorno in piazza c’erano ma non si riconoscevano nelle scelte fatte, e che ne aveva allontanate altre, tra cui alcune femministe storiche che, non condividendo il documento delle organizzatrici, non avevano voluto esserci.
La mia lettera alle organizzazioni internazionali, un granello di sabbia in mezzo ad altri granelli di sabbia, messo in campo utilizzando la forza della posizione istituzionale, era figlia dell’incredulità e della speranza. Incredulità di fronte a un silenzio incongruo e insensato. Speranza che i fatti del 7 ottobre potessero essere finalmente chiamati con il loro nome: “Femminicidio di massa”. Perché a nessuna donna, e a nessuna persona in generale, dovrebbe sfuggire che l’orrore perpetrato su altre donne in quanto tali non ha nulla a che vedere con la guerra e neanche con la scia di morte e sofferenza che ogni conflitto porta con sé. La geopolitica non c’entra. La politica, nella scelta di tacere, purtroppo sì.
Scarse, quasi nulle, sono state le risposte. Non a me, ma alla richiesta di verità e solidarietà, di donne verso altre donne, su un terreno che non dovrebbe conoscere divisioni e omissioni. E questo non è accettabile. Continuerò a insistere nella mia richiesta, tornerò a chiedere risposte da parte delle organizzazioni internazionali, perché questo silenzio urla. Come possiamo continuare a parlare di violenza e femminicidi, di patriarcato e maschilismo, ignorando quello che è avvenuto il 7 ottobre, trattandolo come un evento quasi sopportabile, che appartiene a una semplice logica di guerra, o anche soltanto a una logica di odio antisemita? Non saremmo più credibili se lasciassimo scivolare quei fatti fra i tanti lasciati senza luce e rilevanza, fatti trascurabili, rubricati come un episodio tutto sommato irrilevante nella storia infinita del conflitto israelo-palestinese. Non saremmo più credibili se non lottassimo perché alle ragazze del rave, alle donne dei kibbutz sia data giustizia, perché i colpevoli siano individuati e puniti, i fatti chiamati con il loro nome e portati fino in fondo alla ribalta internazionale, la verità raccontata e rispettata.
Eugenia Roccella, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità