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La polemica senza senso

Non è un insulto per nessuno ricordare che Mussolini stimava Gramsci

Franco Lo Piparo

Ben venga l’idea di ricordare con una targa commemorativa il luogo in cui morì il pensatore sardo. Perché quei partiti che si richiamano a Gramsci non hanno mai presa in considerazione l'iniziativa?

Fu Mussolini il primo lettore dei Quaderni di Gramsci. Sì, avete letto bene, Mussolini. È il Duce a raccontarlo al giornalista Yvon De Begnac: “Leggo i quaderni d’appunti dei condannati dal tribunale speciale. E mi domando: che cosa la nostra cultura reclama di diverso da ciò che il fascismo propone ai rivoluzionari di buona volontà?” (Taccuini mussoliniani, 1990). Non si conoscono altri condannati del tribunale speciale che abbiano scritto “quaderni di appunti”. Il riferimento a Gramsci è indubbio. Come ciò fosse possibile è facile da ricostruire: i quaderni venivano depositati periodicamente nel magazzino del carcere e qui potevano essere fotografati o inviati direttamente a Roma. Mussolini pare apprezzasse. Non è questo il luogo per stabilire se prendeva una cantonata o aveva visto bene. È argomento da studiare bene e senza pregiudizi. Qui importa registrare il fatto mai diventato, per quello che ne so, oggetto di indagine nella sterminata letteratura su Gramsci.


Che il futuro duce stimasse il pensatore sardo è noto. Nell’intervento parlamentare del 1° dicembre 1921 così ne parla: “Un sardo gobbo e professore di economia e filosofia, di un cervello indubbiamente potente”. Gramsci muore il 27 aprile del 1937. Otto mesi dopo, il 31 dicembre dello stesso anno, Mussolini scrive sul Popolo d’Italia una, a dir poco strana, commemorazione dell’avversario politico che è un astuto messaggio in codice ai sovietici, russi e italiani. Riporto la parte centrale dell’articolo: “I comunisti hanno tentato di farne una specie di ‘santo’ del comunismo, una vittima del fascismo, mentre la realtà è che Gramsci, dopo un breve periodo di permanenza in reclusorio, ebbe la concessione di vivere in cliniche semiprivate o completamente private. Ed è morto di malattia, non di piombo, come succede ai generali, ai diplomatici, ai gerarchi comunisti in Russia, quando dissentono – anche un poco – da Stalin e come sarebbe accaduto a Gramsci stesso se fosse andato a Mosca”. Con parole più chiare: Gramsci era un comunista dissidente (diremmo adesso: un anomalo comunista-non-comunista, il primo dei futuri comunisti nominali) e, arrestandolo, l’ho salvato da una sicura morte “di piombo” e non “di malattia”. 


Queste poche notizie spiegano tanti fatti altrimenti incomprensibili. Primo fra tutti, il fatto che nonostante la severa e ingiusta condanna voluta da Mussolini e la gravità del reato contestato (attentato allo Stato) Mussolini, sempre lui, abbia consentito che il detenuto Gramsci avesse una cella tutta per sé e potesse disporre di libri e materiale per scrivere. Privilegio così eccezionale per un detenuto politico da fare insospettire gli altri compagni carcerati. Altra stranezza: la facilità con cui i Quaderni uscirono dal carcere prima e dalle cliniche Cusumano e Quisisana dopo. Per requisirli non erano necessarie disposizioni particolari, bastava applicare il regolamento carcerario. Una storia intricata quella dei rapporti tra Mussolini e Gramsci. Emessa l’ingiusta condanna, Mussolini stende attorno al detenuto una rete protettiva che controlla personalmente. Possediamo una abbondante mole di documenti ministeriali che provano che il duce seguisse personalmente le vicende del detenuto Gramsci e in qualche modo lo proteggesse dai suoi carcerieri. Alcuni episodi sono noti da tempo. Quando il direttore del carcere gli proibisce ad esempio la lettura di alcuni libri, il detenuto scrive direttamente a  “S.[ua] E.[ccellenza] il Capo del Governo” e l’autorizzazione alla lettura arriva. 


Ben venga l’iniziativa del ministro di questo governo di destra di ricordare con una targa il luogo (la clinica Quisisana) in cui morì Antonio Gramsci. Ci auguriamo che sia una occasione per riflettere meglio su aspetti ancora oscuri del nostro passato. Una domanda: perché né partiti né intellettuali che si richiamano a Gramsci non hanno mai presa l’iniziativa della targa commemorativa alla Quisisana? L’unica risposta che riesco a darmi è: Quisisana non è un carcere ma la clinica dell’alta borghesia romana. E la permanenza costosa di Gramsci (in regime di libertà condizionale) e della cognata Tatiana nella clinica, dall’agosto 1935 all’aprile 1937, fu finanziata dal banchiere Raffaele Mattioli, presidente della Banca Commerciale. L’occhiuto governo italiano poteva non saperlo? E ancora: stando alla testimonianza di Nilde Iotti, nella cassaforte della Banca trovarono il primo rifugio i Quaderni. Tutto questo poteva avvenire senza il consenso attivo di Mussolini? Le domande ancora senza risposte sono tante. Il ministro dice (Corriere di martedì) che Gramsci non appartiene a un partito ma fa parte dell’identità culturale italiana. La stessa idea sosteneva il Togliatti degli ultimi anni.
 

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