Governo e regioni

Come sarà quest'autonomia differenziata

Marianna Rizzini

Una legge necessaria  per il centrodestra, dannosa per il centrosinistra. Eppure il tema è stato affrontato più volte da entrambi gli schieramenti. Pregi e difetti del nuovo modello di rapporto centro-periferia. Un girotondo di opinioni

Autonomia” (differenziata) è parola che scatena opposte tifoserie a destra e a sinistra. Il promotore e ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli, dopo l’approvazione del “suo” ddl in Senato, mercoledì, si è mostrato più che soddisfatto: “Non credo di esagerare”, ha detto: “Con questa legge supereremo la questione meridionale e la questione settentrionale che ci portiamo dietro dal 1861”. “Con l’Autonomia avete dato il colpo di grazia alla Sanità”, ha detto invece la segretaria pd Elly Schlein (mentre Pier Luigi Bersani ha sottolineato con una battuta: “L’Autonomia è il maiale di prosciutti di Calderoli, ne ha un allevamento”). Ma questo dibattito esacerbato sta entrando davvero nel merito? Che cosa del ragionamento sull’autonomia in sé andrebbe o potrebbe eventualmente essere “salvato”, a sinistra? E su che cosa, a destra, si potrebbe invece riflettere per migliorare la legge? Al di là delle bandiere, al di là delle polemiche, il tema è stato ripetutamente affrontato da entrambi gli schieramenti in tempi diversi. Si può trovare un punto di caduta comune – e, in caso, su che cosa?


Chiediamo lumi al professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale e professore emerito della Scuola Normale superiore di Pisa. “Nel suo libro su The English Costitution, del 1867 – dice Cassese – Walter Bagehot distingueva la parte ‘theatrical’  da quella ‘efficient’ del sistema politico costituzionale inglese: anche noi, in Italia, abbiamo due parti, che rappresentano un conflitto ‘di teatro’ e nascondono invece un orientamento ‘bipartisan’ che è andato svolgendosi nel tempo. Per questo motivo non condivido il modo in cui ha posto la domanda, perché riflette le dichiarazioni delle parti e non invece la storia recente dell’Italia. Questa storia è scandita in diverse fasi degli ultimi trent’anni. Comincia con la nascita della Lega, alla fine degli anni Ottanta, Lega che minaccia la separazione delle regioni del nord. Continua con il centrosinistra,  i cui governi, che vanno dal 1996 al 2001, promuovono e realizzano tre importanti cambiamenti della Costituzione. Fanno cadere la parola Mezzogiorno dalla Carta costituzionale. Introducono la promessa dell’autonomia differenziata. Prevedono che lo Stato fissi livelli essenziali delle prestazioni. Intorno al 2016 si riapre il problema, finché, alla fine del 2022, il centrodestra mette insieme la promessa dell’autonomia differenziata con la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, stabilendo, per legge, che la prima può realizzarsi soltanto dopo aver fissato i secondi. Quindi, il centrodestra non fa altro che mettere insieme due elementi dei tre introdotti dal centrosinistra nella Costituzione, condizionandone l’uno all’altro. Tutto questo mostra una straordinaria continuità nel tempo”. E poi? “Nelle ultime settimane – dice Cassese – la sinistra, che ha fatto propria l’autonomia differenziata introducendola nella Costituzione, si oppone all’avvio della sua realizzazione, anzi la contesta. La rappresentazione dei fatti che viene operata sulla grande scena della politica nasconde due problemi veri. Il primo è quello di fare un bilancio serio dell’esperienza regionale, accertando dove essa ha attecchito e dove non ha attecchito, in modo da studiare i mezzi per rafforzarla. Il secondo problema vero riguarda la determinazione dei costi storici e dei fabbisogni, cioè del passato e del futuro della spesa necessaria per determinare i livelli essenziali delle prestazioni, in modo da stabilire in quanto tempo possa essere operata un’eventuale differenziazione, dopo aver garantito i livelli essenziali delle prestazioni per quanto riguarda i diritti civili e sociali di tutti cittadini, nel rispetto dei vincoli di bilancio”.


Il tema, in attesa che il provvedimento passi alla Camera, interroga accademici e osservatori. Per l’avvocato e presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto una sinistra consapevole “dovrebbe ricordare quello che è successo ai tempi del referendum costituzionale per la riforma del Titolo V, motivo per cui dico: se il ddl Calderoli dovesse passare alla Camera, il referendum abrogativo minacciato è destinato a sicuro fallimento, nel senso della mancanza di quorum, trattandosi di legge ordinaria. E’ un caso diverso dall’eventuale referendum costituzionale sul premierato – per cui non sarebbe previsto il quorum. In tal caso la maggioranza potrebbe essere messa in seria difficoltà, ma sull’autonomia l’arma referendaria mi pare una pistola scarica. E comunque ora l’orizzonte della sinistra sono le elezioni – politiche, nella chiave di un investimento in serietà – e dico politiche e non europee perché sarebbe velleitario pensare che in tre mesi si possa raggiungere un risultato soddisfacente”. Investimento “in serietà”, dice Benedetto. Cioè? “Investire in serietà sulla sanità e sulla scuola, che devono restare necessariamente sotto l’egida dello stato centrale. Su altre materie, invece, come ambiente ed energia, si può anche devolvere, ma non tanto alle regioni, quanto all’Europa”. Ha qualcosa da dire anche alla destra, il presidente della Fondazione Einaudi: “Se vuoi trattare sui princìpi, allora devi portare avanti una battaglia sui princìpi, se fai una battaglia su un’idea allora devi restare alla sua forma pura. Invece Fratelli d’Italia ha cominciato con il presidenzialismo, poi è passata al semipresidenzialismo e infine al premierato. Quanto alla Lega, è partita con la secessione, poi è passata al federalismo, ma senza stato federale, e ora all’autonomia. Dovrebbe chiedersi se dal suo punto di vista questo non è un obiettivo misero, nell’ottica iniziale. Poi c’è la premier Giorgia Meloni – che nel suo discorso d’insediamento ha detto di voler ‘rimuovere tutti gli ostacoli che frenano la crescita economica e che da troppo tempo ci siamo rassegnati a considerare mali endemici dell’Italia’. Ve lo immaginate, stando al ddl approvato in Senato, un povero imprenditore che va su e giù per l’Italia, intento a districarsi tra autorizzazioni e norme diverse da nord a sud? Temo che a un certo punto gli verrebbe in mente di girare l’angolo e cambiare paese”.


Alfonso Celotto, professore ordinario di Diritto costituzionale a Roma Tre, esperto di burocrazia e istituzioni, già capo di gabinetto in diversi ministeri, trova che “l’autonomia differenziata in sé sia neutra, dipende come la usi. La puoi usare bene e allora diventa strumento di competitività e di coesione per il paese; la puoi usare male e diventa motivo di spaccatura. E’ come il bicameralismo perfetto che può servire a fare le leggi meglio o peggio. Che cosa voglio dire? Voglio dire che se si fa un ragionamento serio sui livelli essenziali delle prestazioni – i Lep – sui costi standard e sul fondo di perequazione, l’autonomia diventa il modo per rendere le regioni più competitive, soprattutto se ciascuna chiede soltanto le materie su cui può lavorare meglio e i servizi che può garantire meglio. Facciamo un esempio: se gli asili nido li gestisce direttamente la Puglia o il Piemonte possono funzionare meglio, però servono i livelli essenziali affinché tutti, visto che siamo tutti italiani in una Repubblica unica e indivisibile, abbiano quel livello base di servizio ovunque e il costo standard per capire quanto la regione può perdere o guadagnare. Ma quello che eventualmente la regione stessa guadagna sull’efficienza deve poi ripassarlo allo stato in modo che lo stato lo redistribuisca tra le regioni: il Fondo di coesione è nazionale. Messa così, l’autonomia la salvi. Ma ricordiamo anche una cosa: questa autonomia differenziata è soltanto una base; il ddl approvato in Senato è soltanto il meccanismo, la scatola degli strumenti utili a fare le intese con le regioni. E’ un problema da studiare bene e costruire bene. Può migliorare e far funzionare bene il paese, ma le cose vanno fatte sul serio”.  

 

Docente di Diritto costituzionale all’Università di Catania, Ida Angela Nicotra pensa invece che il tema del regionalismo vada trattato “partendo dalla norma costituzionale che prevede, appunto, l’autonomia differenziata e la sua attuazione con legge ordinaria rinforzata. La riforma del Titolo V, approvata da un governo di centrosinistra e confermata dai cittadini italiani con un referendum nel 2001, si fonda sulla, a mio parere condivisibile, idea di fondo che vi è un profondo legame tra autonomia e differenziazione, nel senso che la seconda costituisce declinazione della vocazione autonomistica della Repubblica italiana stabilita nell’articolo 5 della Costituzione, tra i principi fondamentali. Un modello differenziato infatti asseconda l’autogoverno dei territori per rispondere alle differenti esigenze di ciascuna delle comunità locali. Ovviamente, ciò deve avvenire nella garanzia dell’uguale godimento dei diritti fondamentali da parte dei cittadini da nord a sud. La previsione sui Livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali in tutto il territorio nazionale costituisce il presupposto affinché l’autonomia e la differenziazione siano coerenti con l’eguaglianza dei diritti (dalla scuola alla sanità, dai trasporti all’assistenza). La preventiva determinazione dei Lep prevista nel ddl 915 risponde a tale obiettivo (art.3). Del resto il ddl precisa che anche alle Regioni che sceglieranno di non beneficiare della differenziazione saranno garantite le risorse per svolgere i loro compiti”. Ma, dice Nicotra, “al fine di realizzare un modello di autonomia differenziata che sia virtuoso e responsabile occorre un utilizzo ‘minimale’ del criterio della spesa storica e procedere rapidamente a utilizzare i costi e i fabbisogni standard per i livello essenziali delle prestazioni in modo uniforme su tutto il territorio nazionale”. L’art.5 del ddl, dice Nicotra, “individua come strumento di finanziamento delle funzioni ‘le compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale’ nel rispetto del principio della copertura finanziaria. L’attuazione del regionalismo differenziato richiede il rispetto dell’autonomia finanziaria, a cominciare dalla possibilità di utilizzare il fondo perequativo, le risorse aggiuntive e gli interventi speciali in favore di enti territoriali svantaggiati. In altre parole, applicare il principio di solidarietà alle aree della Repubblica più fragili, come nel caso delle isole, per rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità (art.119, 6 co. Cost.). Con tali accorgimenti l’autonomia differenziata può rappresentare il meccanismo per coniugare il binomio unità e autonomia, nel solco degli ideali costituzionali”.


La riforma può avere “un paio di effetti positivi, anche vista da sinistra”, dice Lorenzo Castellani, docente di Istituzioni politiche alla Luiss: “Il primo è quello di allineare, oltre alle prestazioni pubbliche, anche i costi standard e rendere più efficiente il processo di acquisto delle amministrazioni regionali. Il secondo è di introdurre per le regioni meno virtuose delle priorità politiche, cioè il miglioramento dei servizi a discapito di politiche clientelari che vengono spesso perseguite dalla giunte regionali di ogni colore. La riforma non cambia radicalmente il rapporto centro-periferia, ma potrebbe aiutare la politica locale a spendere meglio quando ciò non accade e valorizzare le regioni più forti e meglio amministrate. Ad esempio, due regioni storicamente di sinistra e in genere ben amministrate come Toscana ed Emilia-Romagna potrebbero trarre beneficio da una maggiore autonomia. Allo stesso modo regioni del sud, come Puglia e Campania, potrebbero essere spronate ad aumentare la qualità delle prestazioni pubbliche (appunto il modello ER) senza far deragliare i bilanci”. Ci sono però aspetti negativi migliorabili, nella riforma vista  da destra.  “La destra”, dice Castellani, “sostiene che la riforma sarà a saldi invariati, ma non è molto credibile visto che lo stato centrale incasserà meno dal Nord e spenderà di più per il Sud probabilmente. Quindi si potrebbero ipotizzare due ragionamenti migliorativi: il primo è di andare verso un federalismo fiscale in cui le regioni abbiano maggiore potestà impositiva e quindi cessino di esser soltanto degli enti di spesa; il secondo è una forma di condizionalità per quelle regioni peggio amministrate e più indebitate alle quali si garantiscono risorse per raggiungere i Lep ma in cambio di un bilancio più responsabile (per rendere l’idea: un meccanismo Pnrr applicato dentro l’Italia alle regioni)”.


Riflettendo sul concetto di autonomia in sé, e su quali aspetti potrebbero essere “salvati” da una sinistra che in passato aveva affrontato il tema, Francesco Clementi, ordinario di diritto pubblico comparato alla Sapienza di Roma, riporta intanto alla Carta stessa: “E’ la Costituzione che prevede la possibilità di un’autonomia differenziata. Questo, io credo, debba essere il primo punto dal quale partire per un ragionamento ordinato in tema, nella consapevolezza che, tanto il centrosinistra quanto il centrodestra, in questi anni, in modo alternato, sono stati attraversati da pulsioni federaliste, resistenti chiusure municipaliste, concrete regressioni centraliste. Il testo che abbiamo di fronte, peraltro, è per certi aspetti ‘vuoto’. Perché è una legge sulla procedura-quadro in base alla quale chiedere eventualmente ulteriori materie per un’autonomia differenziata. Aggiungo che, in assenza di una individuazione molto dettagliata di ogni singola prestazione riguardo ai Lep, e conseguentemente di un loro finanziamento adeguato e coerente a garantire l’uguaglianza sostanziale dei cittadini su tutto il territorio nazionale, quello che abbiamo di fronte, dopo questo primo voto, è davvero poco. Si tratta, sostanzialmente, di una bandiera elettorale che fa comodo ad entrambi gli schieramenti in vista delle Europee: al destra-centro, soprattutto alla Lega; e alla sinistra-centro, soprattutto per compattare intorno al Pd trazione Schlein e al M5s un Sud sempre più in difficoltà rispetto alle promesse mancate dei governi degli ultimi anni e alle disuguaglianze sempre più evidenti”.  E’ stupito, Clementi, per il fatto che “nessuno, in tutto questo fare, abbia il coraggio di dire ciò che manca davvero: ossia un Senato delle autonomie, che responsabilizzi anzitutto le regioni a livello nazionale. Per evitare infatti che le leggi bilaterali con le singole regioni, introdotte con il ddl Calderoli, producano effetti schizofrenici, bisogna infatti che le regioni siano responsabilizzate a discuterne insieme in un’istituzione. Altrimenti una può avere un potere in più solo perché magari è più vicina al governo o uno in meno perché ne è lontana. Si può evitare questa follia con la modifica del bicameralismo, appunto”. C’è qualche punto su cui il centrodestra potrebbe riflettere per migliorare la legge? “In questa fase, dice Clementi, “si deve fare quel che si deve, evitando di cercare un referendum in tema allargando la frattura storica tra Nord e Sud. Non da ultimo perché i divari territoriali esistono già ora, prima che l’autonomia differenziata diventi legge. Serve invece attuare la Costituzione, dando una procedura all’art. 116, c. 3, tenendo insieme questo con quattro nodi chiave: l’equilibrato rapporto tra uguaglianza e differenziazione; quello tra competizione e cooperazione regionale; quello tra particolarismo territoriale, anche economico, e coesione sociale nazionale; infine appunto tra inattuazione costituzionale e proposte di riforme istituzionali.


Insomma, al di là delle tifoserie, va tarato con intelligenza, equilibrio e saggezza, il possibile grado di differenziazione all’interno di una Repubblica che è comunque una e indivisibile: la quale – sia chiaro – al fondo vive e deve vivere di un modello solidaristico, e non di uno competitivo”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.