l'editoriale del direttore

Perché, dove ti giri, c'è una destra minacciosa sul cammino di Meloni

Claudio Cerasa

In Italia, dopo il 9 giugno, Salvini sarà ancora di più la sua spina nel fianco. In Europa, avere molti governi di destra potrebbe essere un problema per curare gli interessi nazionali. E  Trump?  Già adesso è un ostacolo per i progetti politici di una post nazionalista

Quando si ragiona sul futuro di Giorgia Meloni viene spesso naturale chiedersi quali possano essere, di qui ai prossimi mesi, i grandi ostacoli presenti sul suo percorso politico. Chi pone questa domanda lo fa partendo da un assunto malizioso, dando cioè per scontato che il principale ostacolo che dovrebbe contrapporsi in modo naturale di fronte alla maggioranza di governo, ovvero l’opposizione, sia poco rilevante, poco concreto, troppo fumoso e del tutto inconsistente. Il tempo ci dirà se questo calcolo è corretto (possibile che il Pd non vada bene alle europee, come temono gli stessi leader massimi del Pd, ma è impossibile che i partiti dell’opposizione prendano più voti dei partiti della maggioranza?), ma al momento la minaccia rappresentata dai partiti che si oppongono al governo non appare così solida da far tremare l’impalcatura che sorregge il governo Meloni. E dunque vale la pena esplorare altri terreni. Punto numero uno: l’economia? Finora, Giorgia Meloni ha camminato sul velluto, per quanto riguarda l’economia, e nei suoi primi quindici mesi di governo, su questo fronte, non vi sono stati problemi.

 

Gli investitori non hanno mostrato timori verso l’Italia (lo spread è sotto controllo), il debito pubblico non è stato strattonato (anche nell’ultima manovra), la crescita del 2023 è stata superiore al previsto (di tre punti decimali), l’occupazione ha raggiunto livelli da record (anche se i salari non sono aumentati come avrebbero dovuto) e persino le borse hanno toccato numeri da record (anche se a dominare il listino italiano sono principalmente aziende controllate dallo stato: vedi Leonardo, il cui valore in Borsa nel 2023 è cresciuto del 77 per cento). Si dirà: ma che succede se nel 2024 dovesse accadere quello che molti analisti temono che succeda, ovverosia una recessione italiana generata anche dalle cattive performance della Germania? Scenario possibile ma scenario per fortuna reso difficile da un’inflazione destinata a scendere ancora nei prossimi mesi (houthi permettendo), da consumi destinati a crescere di nuovo nel 2024 (tassi della Bce permettendo) e da una mole di denaro pubblico offerto dall’Europa (via Pnrr) che secondo molti analisti permetterà all’Italia di superare le secche della possibile crisi economica (per quanto sia bassa la percentuale di soldi messi a terra dall’Italia sul Pnrr, sono comunque molti miliardi). Dunque, no, salvo sorprese l’economia non dovrebbe offrire preoccupazioni eccessive a Meloni.  Si può dire lo stesso per quanto riguarda la magistratura? Il colpo possibile al governo evocato giorni fa dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, è un classico della storia italiana, una costante, e sarebbe una notizia, visto il passato, che non vi fosse un attivismo della magistratura più ideologizzata, contro un governo desideroso non solo di far valere la propria sovranità (se si viene votati per dare più potere a chi governa, può capitare che chi governa voglia dare più potere all’esecutivo) ma desideroso anche di riequilibrare il rapporto tra potere legislativo e potere giudiziario (abuso d’ufficio, prescrizione, intercettazioni). Ma al netto di questo, di ciò che è imprevedibile, per quanto una toccatina di polso delle procure alla maggioranza possa essere imprevedibile, diciamo, il vero elemento che potrebbe destabilizzare la presidente del Consiglio, e il suo partito, viene dal fronte politico che in teoria dovrebbe rappresentare: le destre. Dove ti giri, c’è una destra minacciosa per Meloni. In Italia, neanche a dirlo, c’è Salvini, che a prescindere da come andranno le europee è destinato, dopo il 9 giugno, a essere ancora di più una spina nel fianco per Meloni (vi immaginate cosa potrebbe succedere se il partito di Meloni dovesse dare davvero i suoi voti, in Europa, a Ursula von der Leyen, per la Commissione europea, insieme con il Pse?). Ma anche in giro per il mondo le cose non vanno meglio. Pensate all’America: l’ascesa di Donald Trump è una minaccia vera che si pone dinanzi al progetto meloniano di creare un partito della nazione, responsabile in Europa, affidabile sulla politica estera, impeccabile sull’atlantismo, e il fatto che il trumpismo sia già divisivo nel governo è testimoniato da chi ha esultato in Italia per la vittoria di Trump alle primarie in Iowa (Salvini) e chi no (Meloni). Ma pensate anche all’Europa: le difficoltà incontrate in questi mesi dai partiti alleati con Fratelli d’Italia (il PiS in Polonia, Vox in Spagna) hanno aiutato Meloni ad archiviare progressivamente i suoi tic più estremisti e hanno permesso alla premier di rivolgersi ai partiti più populisti d’Europa (come l’AfD) con sufficienza e distacco (alla conferenza stampa di fine anno, Meloni ha detto che vi sono distanze incolmabili con partiti come l’AfD) e di potersi rivolgere a leader come Orbàn (Ungheria) con il tono di chi sa che andare contro l’Ungheria (come successo sul Patto sui migranti) non significherebbe rompere un blocco politico potenzialmente vincente in Europa. Il discorso, in Europa, vale per ragioni tattiche (se Sunak dovesse perdere in Inghilterra, Meloni diventerebbe l’unico leader di destra in un grande paese del continente: non male, no?) ma vale anche per ragioni strategiche. E non ci vuole molto a capire che per un paese come l’Italia che ha bisogno di flessibilità sui conti e di solidarietà sui migranti avere in Europa molti governi di destra potrebbe essere un problema mica da poco per curare i propri interessi nazionali. Ci sono molti ostacoli sulla strada di Meloni, nel 2024, ma quello più sottovalutato riguarda la destra e la necessità inconfessabile da parte di Meloni: fingere di volere in giro per il mondo il maggiore numero di destre al governo e augurarsi fortissimamente che questo non accada. E’ il post nazionalismo, bellezza.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.