Silvio Berlusconi al Senato per il voto di fiducia al suo primo governo nel 1994 - foto Ansa

1994 - 2024

Berlusconi vince le elezioni. Così trent'anni fa l'intellighenzia perse la testa

Pierluigi Battista

Era il 28 marzo 1994. Collassi, mancamenti, svenimenti. Dalla "plebe borghese" di Luigi Pintor alla "imbecil-gente" di Dario Fo, la Repubblica delle Lettere si scagliò contro gli elettori

Lo choc fu terribile, la sera del 28 marzo 1994, a urne aperte, trent’anni fa. Il trauma della disfatta non dava scampo. L’acqua avvelenata era arrivata alla gola: si soffocava, si era colti da misteriosi ma micidiali malori. Letteralmente, come vedremo. D’improvviso era sbucato l’Alieno che aveva sbaragliato la “gioiosa macchina da guerra” e sulla testa frastornata degli intellettuali italiani, abituati al calduccio della Prima Repubblica in cui tutto sommato, malgrado i “trent’anni di malgoverno democristiano” della nota litania, anche l’opposizione aveva le sue comodità, era arrivata la tempesta esistenziale perfetta. L’assalto dei baccelloni come nell’“Invasione degli ultracorpi”. Il blitz del super-baccellone Silvio Berlusconi, proditorio, inatteso, fantascientifico, lasciava senza fiato.
  

Ma se la presero più con il popolaccio che con lui, il Venditore. Partirono le invettive contro gli italiani traditori che avevano scelto il Gran Corruttore delle Coscienze. Qualcuno perse addirittura il ben dell’intelletto. La sorveglianza lessicale vedeva sbriciolarsi le sue ultime difese. Dario Fo e Franca Rame lanciarono maledizioni contro quella che chiamavano con un neologismo dalla doppia carica aggressiva l’“imbecil-gente”, e usarono un linguaggio sboccato che oggi i custod* dell’ortodossia wokista considererebbero meritevole dell’ultimo girone dell’inferno: maledetti, maledetti italiani oramai “imbesuiti” – dicevano, anzi gridavano – rimpinzati di “slogan, natiche e tette centrifugate che calano inesorabili, come falli al cioccolato, nelle bocche vergognose di femmine lascive che mugolano nell’orgasmo al gelato”. Il tribunale della cancel culture avrebbe già emesso la sua sentenza: anatema eterno. Ma con Silvio Berlusconi, trattandosi del nemico perfetto e dei suoi intontiti seguaci ed elettori, sono scattate ovviamente le attenuanti.
  

I collassi, i mancamenti, gli svenimenti. Noi tutti fummo presi dallo stupore per un’impresa che sembrava impossibile, per quei candidati con il kit d’ordinanza, così stile Publitalia, così diversi dal personale politico che ci aveva rallegrato sino ad allora. Ma i collassi, gli svenimenti, i mancamenti hanno davvero mietuto molte vittime nei luoghi dorati della Repubblica delle Lettere. Correvano leggende sul deliquio di quel regista, sulla perdita di sensi di quell’altro scrittore. Ma almeno in un caso ci sono prove certe di subitanei tramortimenti di esponenti illustri del ceto culturale italiano. Emanuele Trevi ha raccontato tempo fa nel suo “Qualcosa di scritto” (Ponte alle Grazie) che cosa accadde a casa di Laura Betti la sera del 28 marzo del 1994, giorno della vittoria elettorale di Berlusconi, dove, “per vedere assieme i risultati della votazione, Laura aveva invitato un po’ di gente”. Ma arrivò la mazzata proprio al momento del dessert: la vittoria del “disgustoso milanese, che era l’incarnazione di tutto ciò che il mondo di Laura schifava e aborriva”. “Vicino a me”, continua Trevi, “Enzo Siciliano letteralmente gemeva ogni volta che apparivano gli aggiornamenti dei risultati sullo schermo della tv”. “Laura, al colmo dello sconforto, con le proiezioni dei risultati oramai stabilmente orientate alla disfatta (…) lanciò una specie di gemito, un lieve barrito se si può dire, per poi crollare su un malcapitato”, che pare fosse il regista Mario Missiroli. La mesta serata finì con gli invitati che, “come una tribù di pescatori eschimesi”, si affaccendavano concitati “intorno alla mole da tirare in secco del capodoglio appena catturato”, dandosi da fare “per deporre Laura sul suo letto”. Poi gli invitati sciamarono in silenzio per tornare iracondi e afflitti nelle loro case, dove prese a covare un risentimento smodato verso i propri connazionali, traditori, servi, rincoglioniti dalla nuova arma del potere: la tv.
  

Luigi Pintor riesumò il fantasma della plebe: “plebe borghese” da vituperare e da lì, potenza delle metafore, nacque una categoria che ci ha accompagnato fedele nei decenni e sempre uguale a sé stessa: la “deriva plebiscitaria”. Antonio Tabucchi, neanche fosse vittima dolente della frustrazione di un pastore d’anime abbandonato dal gregge, espresse tutto il suo orrore per la malaugurata eventualità di sia pur fuggevoli “contatti con chi va in discoteca e allo stadio”. Se la presero con Ambra, nuova quinta colonna del dominio dell’Alieno ed esempio, con il suo auricolare, di un popolo teleguidato (poi fecero autocritica su Ambra). Se la presero persino con Fiorello e con il suo karaoke, arma di distrazione di massa (poi fecero autocritica su Fiorello), ma davvero ancora oggi mi sfugge il motivo di tanto astio antikaraokesco. Se la presero con Raimondo Vianello (si narra di un elettore ex democristiano che sussurrò, in controtendenza: “meglio con Vianello che con Violante”) e pure con Mike Bongiorno, ambedue considerati collaborazionisti del Nemico nella sua fortezza Fininvest.
 

C’è chi propose un’interpretazione vagamente surreale dei risultati elettorali, esemplificando il potere ipnotico di Berlusconi nei piccoli segnali luminosi emessi dalla spilla di Forza Italia esibita dall’Alieno sul doppiopetto sfoggiato nel certame televisivo con il povero Achille Occhetto, oramai già in fase di cottura per l’imminente linciaggio dello sconfitto. Edoardo Sanguineti cercò nell’arsenale fornitissimo della propria immensa erudizione un antefatto letterario e di costume, che poi coincideva a suo autorevole parere con una figura oramai consegnata al rigattiere della storia culturale come Liala: “Ha preceduto la Fininvest, involontariamente ha collaborato a creare una fabbrica di sogni”, per carità solo “involontariamente”, povera Liala. Ci fu chi dichiarò di voler prendere la via dell’esilio. Come Vincenzo Consolo, che però poi esitò, esitò, esitò (“devo trasportare tutti i libri, salutare gli amici. Ma me ne andrò”) e alla fine, traccheggia oggi, traccheggia domani, proprio non se ne andò: “Ho voluto usare parole forti contro il linguaggio della politica”. Anche Arnoldo Foà del resto ebbe a dichiarare che avrebbe abbandonato l’Italia irriconoscibile per rifugiarsi non nella Parigi degli anni Trenta come i fuoriusciti antifascisti bensì sulle spiagge cristalline delle Seychelles. Non ho seguito poi l’esito di un tale proposito espresso da uno dei più grandi attori italiani del Novecento. Ma non importa, succede sempre così, e del resto anche Tom Wolfe aspettò inutilmente all’aeroporto tutti quelli che avevano minacciato di lasciare gli Stati Uniti dopo il doloroso rovescio elettorale con l’odiato George W. Bush per fare “ciao ciao” con la mano come gesto di scherno: ma niente, nessuno partì. Allora Cesare Garboli, disgustato per la sua italica gente “incolta”, “maleducata”, “volgare”, optò piuttosto per l’autoconfino, senza neppure muoversi da casa: “Non è più il caso di indignarsi, non resta che un confino nella propria abitazione a televisore spento”. “A televisore spento”, ovviamente.
 

Dopo il trauma che aveva sconvolto la propria esperienza personale più che politica, va sottolineata la circostanza che non fu del tutto estranea agli intellettuali italiani di una certa tentazione verso forme bizzarre di paranormale politico. Il poeta Giovanni Giudici, per esempio, rivelò che da qualche tempo, più o meno in coincidenza con il successo politico della destra, inconsapevolmente aveva cominciato “a usare più del dovuto la mano sinistra”, essendosi per di più, come in una singolare mancinofania ideologica, “accorto con sorpresa della sua notevole capacità e utilità”. Niente da spartire con le feroci invettive contro la greve “imbecil-gente” che tanto aveva fatto infuriare Dario Fo e Franca Rame. Del resto, come notò Mario Pirani, “nelle urne non vince sempre la libertà” e Giovanna Zincone spiegò che nello stesso suffragio universale si nasconde pur sempre il tarlo perché “solo un individuo che goda di un minimo di cultura ha gli strumenti per capire e giudicare per conto proprio”. E perciò essendo il Grande Corruttore amatissimo, seguitissimo, votatissimo da un popolo mediamente ignorante e comunque succube dei segnali luminosi di una spilla, come in una parodia di “Metropolis” di Fritz Lang, ecco la frittata del suicidio democratico: da una parte il pifferaio al potere, il popolo abbandonato a sé stesso e senza tutele che gli si mette in coda incantato, dall’altra gli intellettuali, veri depositari non solo del sapere, ma della civiltà stessa, spodestati, inascoltati, traditi. Del resto, come disse ancora Cesare Garboli, siamo diventati quel triste paese in cui “la cultura italiana è la Formula Uno e il calcio” (con l’aggiunta del karaoke, come si è visto). E la teologa Adriana Zarri, un anno dopo, alla vigilia di un altro confronto elettorale, metterà in guardia l’ambiente culturalmente più attrezzato dalla sottovalutazione simbolica della Madonna piangente di Civitavecchia: “Siamo in clima elettorale e il pianto di Maria serve ad annunciare il rischio di questo fantomatico cattocomunismo”. La matrice psico-culturale era sempre la stessa: come fare a non comprendere le conseguenze di un trauma tanto sconvolgente?
 

Si formò allora la famosa teoria del “ma anche Hitler vinse le elezioni” (peraltro espressione storicamente non del tutto esatta, ma vabbé, come scriverebbe Michele Masneri). Non accetti il verdetto democratico a te negativo delle regionali, delle provinciali, delle comunali, delle circoscrizionali, dell’assemblea di condominio? Per forza, “anche Hitler vinse le elezioni”. Per fortuna, a dare un ulteriore spessore culturale a una sentenza che sembrava sempre più simile a un mantra autogiustificatorio e autoassolutorio, provvide l’intervento del giurista Gustavo Zagrebelsky con un saggio intitolato “Il ‘crucifige!’ e la democrazia”. Si partì con una considerazione generale, peraltro difficilmente contestabile: “Si può affermare in generale che tutti coloro i quali santificano il popolo fanno così per poterlo usare; che tutte le volte in cui si dice: il popolo ha parlato – la questione è chiusa, si è in presenza di una concezione strumentale della democrazia”. Ma poi, per passare dal generale al particolare, ecco la lezione che da almeno due millenni sarebbe in grado di spiegare secondo Zagrebelsky la catastrofe del 27/28 marzo del 1994. Nel “crucifige!” si delinea infatti “il modello del popolo sobillato che si sgola”, il “paradigma della massa manovrabile” che trova nel processo popolare a Gesù e nella totalitaria scelta popolare a favore del ladrone Barabba l’antefatto mitologico e simbolico più significativo. Certo, sarebbe impossibile indicare con certezza chi oggi potrebbe essere Gesù e chi Barabba, ma non mancano per così dire gli indizi che l’autore una certa idea in proposito se la fosse fatta. E l’abbia in seguito abbondantemente confermata.
 

Poi, certo, la storia è sempre molto complicata e per tutto l’arco della Seconda Repubblica le elezioni non sono state a senso unico berlusconiano. Si sono vinte o perse, a popolo invariato. Come fare allora a rimangiarsi gli insulti al popolo imbecille e traditore se poi alle elezioni successive le cose cambiano? Non c’è problema, c’è sempre il kit degli attrezzi argomentativi che serve a sublimare un feroce insulto in un brillante encomio. E allora Giorgio Bocca la spiegò in questo modo: gli italiani, pur così fessi e creduloni, si sono alla fine stancati “degli urli, degli insulti e delle rodomontate”. Per Dacia Maraini si poteva facilmente arrivare alla conclusione che non bisogna mai abbattersi troppo perché, pur imprevista, “c’è una straordinaria capacità di riscattarsi”. Pensoso come al solito il regista Giorgio Strehler: “Al pessimismo di qualche tempo fa, quando pensavo agli italiani come a un popolo che non ha una grande spina dorsale, ho sostituito un gramsciano ottimismo del cuore, mediato da un pessimismo della ragione”. Anche perché vinci oggi, ma perdi alla prossima, e il gramsciano ottimismo del cuore rischia si sgonfiarsi alla successiva vittoria del tiranno, del tycoon, del magnate, del Grande Corruttore, dell’uomo con la spilla che brilla nel subconscio degli elettori e ipnotizza dal teleschermo. E quindi la stragrande maggioranza degli intellettuali tramortiti nel 1994, non fidandosi, non si mostrò molto prodiga di risarcitori complimenti nei confronti dell’odiosa e rudemente maltrattata “imbecil-gente”. Ma non era stato Lenin, di cui quest’anno si celebra il centenario della morte, a dire che l’ideale sarebbe stata una cuoca destinata a reggere le sorti del governo e dello stato?

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