L'editoriale dell'elefantino
A Rep. serve una svolta trasformista
Con la nomina di Maurizio Molinari, fior di professionista e militante rigoroso di una cultura liberal-conservatrice, doveva cambiare tutto, eravamo in attesa. Ma il quotidiano è impregnato di moralismo politico che non vuole evolvere. Un problema italiano
Repubblica è dagli anni Settanta un ritrovato notevole della modernità editoriale italiana, questo difficile non riconoscerlo, ma è un giornale in crisi. Lì è avvenuto un regime change. Dalla proprietà Mondadori-Caracciolo-Scalfari, tanti anni fa, si passò alla consanguinea proprietà De Benedetti. Si restava in famiglia, per così dire, con tanto di dote alle figlie del fondatore. Ezio Mauro per vent’anni garantì la sutura. Poi gli Agnelli-Elkann, con il disvelamento del fatto che l’unico vero giornale cognato d’Italia, Carlo & Marella, era stato proprio quello finito in Largo Fochetti, sede e ruolo romano e nazionale sempre meno centrale. E ora la famiglia multinazionale del cognato o meglio della cognata, della compianta nonna di John Lapo e Ginevra, se l’era pappato per poco, complice la malavoglia degli eredi di CDB, e decideva di farne un’altra cosa. Progetto subito fallito, come segnalò il licenziamento a raffica prima di Mario Calabresi e poi di Carlo Verdelli dal loro ruolo di direttori pro tempore e successori della coppia Scalfari-Mauro, beniamini della vecchia redazione. Con la nomina di Maurizio Molinari, fior di professionista e militante rigoroso di una cultura liberal-conservatrice, doveva cambiare tutto. Eravamo in attesa.
Se un giornale come quello, con la sua platea di lettori affezionati e la sua identità politica marcata e univoca, si fosse complicato, liberalizzato, avesse dato segno di voler accogliere qualche idea non conforme alla sua linea tradizionale, sempre congelata in un quadro di valori fisso, immobile, e alla sua interpretazione spesso faziosa, ne sarebbe nato qualcosa di buono per la stampa italiana e per il paese. Un paese in cui la discussione pubblica e la visione di ogni fatto era condizionata da quel polo nord dell’ideologia prewoke che sappiamo. Lerner, il mio Gaddino, era andato via, ma gli altri restarono per non lasciare Repubblica nelle mani della destra (mi esprimo come si esprimono loro). La truppa scelta e illustre, quella che Massimo Giannini chiamerebbe la Struttura Alfa del giornalismo progressista, si diede alacremente a scavare sotto il presente di Molinari-Elkann per ritrovare subito il passato. Ezio Mauro fissava con l’eleganza degli argomenti la cornice un po’ rozza del quadro a olio del vecchio antifascismo, del vecchio antiberlusconismo, del vecchio conformismo moraleggiante che durava dai tempi di Berlinguer, di De Mita, di Di Pietro e giù giù fino al tempo d’oggi con la crociata Stellantis-Fochetti contro la destra che vinse le elezioni e governa con una politica estera, economica e dei diritti definita mainstream dall’Economist, partecipata Exor, ma non da Repubblica, partecipata anch’essa quanto basta. Saint James’s Street si accontenta, ma al giornale di Largo Fochetti non sono sufficienti l’atlantismo o l’aborto o il garantismo pasticcione ma benintenzionato, vorrebbe in più (lo scriveva ieri Mauro) un occidentalismo di valori rigeneratore come una grande e definitiva abiura, e già che ci siamo (aggiunta maliziosa di chi scrive) un bel ruolo di sostegno alla magistratura militante.
Il problema di Repubblica, e di riflesso un pezzetto del problema italiano, è che vuole rimanere eguale a sé stessa, confermarsi nell’identità, negare ogni evoluzione e cambiamento pietrificandosi in una visione costituzional-conservatrice del progressismo e del moralismo politico, e per realizzare questo istinto, radicato nella bella epoca lontana del milionesimo compratore-lettore, perde copie e influenza a rotta di collo in favore di un Corriere cairota che si è riformato sottopelle con criteri un po’ autorevoli e un po’ leggeri, qualche volta fino all’ottusità, su una nuova versione umile e modesta del senso comune degli italiani, sempre rincorso dalla stampa ideologico-commerciale, di sinistra di centro e di destra. Si tratta di un longanesismo degli Stenterelli, come direbbe Carducci, un modo un poco pedante di omologarsi al paese dei pregiudizi coltivando i propri come diversità antropologica, addirittura. Quando Repubblica riconoscerà, e non a mezza bocca ma come si dice aprendo un vero e lancinante (per loro) dibattito, che Berlusconi fu un fenomeno politico di prima grandezza, nonostante tutto, che Craxi era uno statista socialista nell’Italia dei partiti (non si chiede di più per non essere inutilmente vessatori), che Netanyahu fa quello che al suo posto avrebbe fatto Rabin dopo il 7 ottobre, che Meloni per adesso fa quello che avrebbe fatto Draghi, di cui fu per anni leale oppositrice, e quando capirà che la chiave trasformista è una virtù e non un vizio della storia italiana, ecco, allora potremo andare oltre le schioppettate a salve nella trincea evanescente di Conte e Schlein e degli altri, e magari tornerà la voglia di leggere e discutere in un universo liberal liberato dalla cattività babilonese e dal suo Nabucodonosor detto il Fondatore.