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Un nuovo modello

Idee ma anche ambizioni. Cosa c'è nei piani europei di Draghi e Letta

Stefano Cingolani

Più efficienza, più mercato e meno regole per una nuova stagione di grandi aspirazioni e di competitività. I dossier degli ex premier 

Meno regole, uguali per tutti e da tutti rispettate, flessibili tanto da adattarsi a una innovazione tecnologica che corre alla velocità della luce; accesso comune ai capitali, una sorta di eurobond tecnologici; partnership pubblico-privato perché né un singolo stato né un super-stato possono colmare il gap con gli Usa e sostenere la sfida cinese; non più solo moneta, occorre creare una unione vera anche sull’ambiente, il digitale, l’energia. Una deregulation europea è un cambio di modello più che un cambio di passo, sul quale stanno lavorando i due saggi Mario Draghi ed Enrico Letta; l’uno si concentra sulla competitività dell’Europa, l’altro su quel mercato unico sempre promesso e non ancora realizzato, due facce della stessa medaglia. Ora ascoltano e non parlano. Letta, su mandato della Commissione, presenterà il suo rapporto al Consiglio europeo di aprile.  


Draghi, nominato da Ursula von der Leyen, solo dopo le elezioni europee del 6 e 9 giugno prossimi. Per lui potrebbe trattarsi di un vero e proprio programma politico se verrà proiettato al vertice dell’Unione come presidente del Consiglio che comprende i capi di stato e di governo. Passi felpati e diplomazia, dunque acqua in bocca; a chi cerca di avere un’idea dell’agenda vengono riservati solo indizi che, però, non sono affatto vaghi.

I riflettori si sono accesi il 10 gennaio quando nella sede milanese della Banca d’Italia sono sfilati alcuni dei maggiori big delle imprese europee come il presidente di Investor AB Jacob Wallenberg numero uno in Svezia, il presidente del gruppo Vodafone, Jean-Francois van Boxmeer, il ceo di Syensqo (nata dal gruppo Solvay per la “mobilità pulita”) Ilham Kadri, il presidente di Titan Cement Dimitri Papalexopoulos, il presidente della Siemens Jim Hagemann Snabe. Rappresentavano non solo se stessi (e non è poco), ma la Tavola rotonda europea per l’industria (Ert l’acronimo inglese) che comprende i massimi vertici dei maggiori gruppi. A Draghi hanno presentato le loro tre raccomandazioni principali: 1. ripensare la regolamentazione che oggi è l’impaccio principale insieme alla mancanza di collaborazione tra paesi e tra imprese; 2. solidi diritti di proprietà intellettuale e una standardizzazione che consenta di operare rapidamente e su un terreno comune; 3. aumentare gli investimenti ad alta intensità d’innovazione attraverso una partnership pubblico privato che riduca il rischio. Il de-risking è la nuova frontiera che mette insieme politica economica e di sicurezza, il concetto chiave emerso l’anno scorso dal G7 di Hiroshima con lo sguardo rivolto soprattutto a Pechino.

 

La Ue investe troppo poco in ricerca e sviluppo anche perché il suo bizantino sistema regolatorio è costruito per esaltare se stesso non per favorire l’innovazione. Semplificare e sburocratizzare, dunque, è importante, ma non  basta. I concorrenti seguono un approccio strategico per creare sinergie che stimolano l’innovazione, con programmi nei quali la ricerca civile e militare cooperano o con ecosistemi disegnati specificamente per generare sviluppo. Così fanno gli Usa, la Corea del sud, la Cina, Israele, le quattro punte di lancia della nuova rivoluzione industriale. Ciò richiede un cambio anche nell’antitrust: fusioni e acquisizioni per aumentare la competitività vanno accompagnate, non ostacolate. Draghi entrerà nel merito e darà indicazioni concrete e precise sulle cose da fare su tutti questi punti. 

Il piano industriale green pubblicato dalla commissione promette di sostenere l’innovazione attraverso permessi più rapidi e migliori condizioni per test in alcuni settori scelti. Secondo la Ert occorre estendere queste condizioni a tutti i settori industriali, anche per questo occorre un vero mercato unico. E qui la parola passa a Letta. Anche lui lavora in silenzio, ha parlato invece il loquace capo economista della Bce Philip Lane già governatore della Banca d’Irlanda, sottolineando che serve una riforma della fiscalità internazionale (se ne sta discutendo all’Ocse) anche per favorire “un meccanismo di allocazione delle risorse a livello europeo”. Il Next Generation Eu è stato in qualche modo un’anticipazione, ma non si può compiere il grande salto solo con soldi pubblici, bisogna far ricorso a investimenti privati, quindi c’è bisogno di banche e imprese davvero europee che parlino un linguaggio comune, dall’analisi statistica al rendiconto economico, dal quadro giuridico alla governance. Fondamentale è rivedere la legislazione esistente ed estendere il mercato unico a nuove aree: ambiente, energia, digitale richiedono di semplificare e armonizzare le regole, ridurre i vincoli, calibrare le politiche fiscali e gli incentivi spesso troppi e sbagliati, concessi per accontentare clientele elettorali e minoranze vocianti. Tutto questo avvicina le due sponde dell’Atlantico, ma resta ancor oggi una vasta distanza culturale. Senza aprire davvero le porte al mercato l’Europa sarà solo una opulenta fiera di Senigallia. 
 

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