terapia d'urso

Lo chiamavano Adolfo Urss. Storia di un guaio per l'Italia

Il ministro si è convinto di avere il potere di abbassare l'inflazione: benzina, voli, spesa, menù... ormai si occupa sistematicamente di controllo dei prezzi: il Mimit è diventato il nuovo Gosplan

Luciano Capone

Meloni l’aveva scelto per risolvere i problemi in silenzio, ma lui li ha creati parlando. Tante interviste e decreti per riempire i giornali, mentre le multinazionali vanno via. Doveva essere il ministro delle Imprese, è solo il ministro della Rassegna stampa

Quando Giorgia Meloni ha composto il suo governo ha scelto, per le caselle che spettavano al suo partito, di nominare ministro chi aveva esperienza di governo (Crosetto, Fitto, Musumeci, Roccella) e di mettere in posti di sottogoverno i più giovani (Bignami, Delmastro, Gemmato, Montaruli). Da un lato la “generazione Atreju” avrebbe avuto il tempo di maturare, dall’altro la vecchia guardia avrebbe dato maggiori garanzie. Uno dei piloni della prima linea di Meloni era Adolfo Urso, messo nel delicato ministero delle Imprese anche perché, nei governi Berlusconi, è stato due volte a Palazzo Piacentini in veste di viceministro allo Sviluppo economico con delega al commercio estero: al Mise serviva una personalità che, avendo già frequentato i palazzi del potere, aveva sia la conoscenza dei dossier sia la capacità di affrontarli. Urso, che nella scorsa legislatura è stato presidente del Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, sembrava il profilo più adatto: un tipo che, con discrezione, risolve i problemi anziché crearli. E invece, è andata tutta al contrario. 

   

Travolto da un’ansia da prestazione e di visibilità, è l’esponente di governo che ha rilasciato più interviste di tutti i ministri, ma non singolarmente: di tutti messi insieme. Le priorità del ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit, così ha battezzato il vecchio Mise) non le ha tanto individuate nei problemi strutturali e storici del paese, ma nell’estemporaneità e nella contingenza. Così più che del Made in Italy, Urso è diventato il ministro della Rassegna stampa. Sia perché fa di tutto per entrare nelle rassegne con interviste e dichiarazioni su qualunque argomento, sia perché la sua agenda di governo è stata dettata dai titoli dei giornali: dai taxi al caro voli, dal caro benzina al carrello della spesa, ogni prima pagina allarmistica è diventata un provvedimento del ministro.

  

Eppure aveva cominciato bene, risolvendo una grave crisi industriale lasciata in eredità dal governo Draghi come quella di Priolo. L’Isab, la principale raffineria del paese, era entrata in difficoltà dopo l’invasione russa dell’Ucraina perché, essendo di proprietà della russa Lukoil, si è improvvisamente vista tagliare il credito dalle banche che temevano sanzioni secondarie. E così, paradossalmente, l’Isab è stata costretta ad abbandonare la diversificazione dei suoi fornitori per importare solo greggio dalla Russia, l’unico fornitore possibile rimasto. L’ulteriore paradosso, però, era che in vista dell’embargo europeo sul petrolio russo a fine 2022, l’Isab correva il serio rischio di fermarsi per assenza di forniture, con conseguenze devastanti per l’economia della Sicilia e del paese. Con poco tempo a disposizione, il governo fece un decreto, ispirato a un’analoga norma della Germania, che ha introdotto l’amministrazione fiduciaria di industrie strategiche per assicurare la sicurezza degli approvvigionamenti e la continuità produttiva. Ma la norma non ha avuto bisogno di diventare operativa, visto che la pistola sul tavolo messa da Urso ha spinto la Lukoil a evitare il commissariamento, facendo funzionare la raffineria, e a trovare un compratore (i ciprioti di Goi Energy). 

 

Quell’Urso lì, che senza rilasciare dichiarazioni risolve un problema, sparisce improvvisamente. Negli stessi giorni compare l’Urso che abbiamo visto finora: il ministro che produce problemi a mezzo stampa. Siamo a gennaio 2023. Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno, con la prima legge di Bilancio, fatto una scelta tanto difficile quanto necessaria: prima ridurre e poi abolire (ovvero non rinnovare) lo sconto sulle accise introdotto dal governo Draghi. Si tratta di un’agevolazione molto costosa, circa 1 miliardo al mese, e generalizzata che, in un contesto di prezzi dell’energia in calo e di ristrettezze di bilancio, non può essere prorogata. Sui giornali e in tv, però, cominciano a comparire articoli e servizi sulla benzina che supera i 2 euro al litro. Per placare la polemica e allontanarla dalla scelta del governo sulle accise, Urso si fa promotore di un decreto con una serie di iniziative contro la “speculazione”: obbligo di esposizione a ogni pompa di benzina di un cartello con il prezzo medio dei carburanti, “accisa mobile” nel caso in cui i prezzi salgano troppo e inasprimento delle multe ai distributori. Tutte le misure si riveleranno inutili o inutilizzate, ma il decreto segna la prima rottura del governo Meloni con una categoria che fa parte del suo elettorato.

    

     

I benzinai si sentono ingiustamente additati come “speculatori” e tartassati con nuovi obblighi, quando la dinamica del prezzo non dipende da loro. Urso, che vuole consegnare alla Meloni un trofeo politico, si incarica di risolvere il problema che ha creato: far passare il decreto evitando la protesta. Così convoca al ministero un tavolo con le sigle dei benzinai, ottiene dei cenni di disponibilità da una sigla sindacale e, prima di qualunque accordo, fa circolare la notizia dell’intesa agli organi di stampa e vende il successo alla Meloni che era in viaggio istituzionale in Algeria. Le altre sigle sindacali scoprono che Urso ha dato per chiuso un accordo prima di aver negoziato con loro e fanno saltare tutto convocando lo sciopero. La premier non la prende bene e il ministro scarica la frustrazione sui suoi collaboratori accusandoli di tradimento, tanto che due di loro decidono di dimettersi. Urso vede ovunque trame e complotti contro di lui, sia nel suo ministero che fuori: anche dietro le critiche dei giornali c’è sempre qualche mandante generalmente straniero (indiano o francese). E’ una mentalità diffusa nella destra post-missina. Ma l’inclinazione al complottismo in Urso sembra essersi acuita dopo l’esperienza al Copasir.

    

A distanza di un anno, del decreto Trasparenza sui carburanti è rimasta solo la rottura con i benzinai: i consumatori non hanno visto alcun beneficio; l’accisa mobile non è mai entrata in vigore; il cartello con il prezzo medio, come mostrano i dati e le analisi, non è servito a nulla ed è probabilmente illegittimo per un vizio nell’iter di approvazione (almeno secondo il Tar del Lazio che ha annullato il decreto, ma a breve dovrà esprimersi il Consiglio di stato). Eppure Urso non ha imparato dall’errore. Anzi, ne ha fatto un metodo di governo. Si è addirittura convinto di avere la capacità di determinare la dinamica dei prezzi. “Col tabellone sul prezzo medio – dice – c’è stata una costante riduzione del prezzo di gasolio e benzina”. Sarebbe un potere superiore a quello dell’Opec, visto che il cartello mondiale dei produttori petroliferi per incidere sul prezzo deve agire sull’offerta di greggio, mentre il ministro abbassa i prezzi con la sola esposizione di un cartello.

   

Questa presunzione è diventata patologica, perché nel corso dei mesi Urso si è convinto – e cerca di convincere il resto del mondo – di avere questi superpoteri non solo sui carburanti ma sui prezzi in generale. Insomma, altro che Bce e Federal Reserve, è il Mimit che abbassa l’inflazione. Non senza scontri con le imprese dell’agroalimentare, accusate anch’esse di “speculare” sui beni di prima necessità, Urso ha lanciato il “carrello tricolore” nel “trimestre anti-inflazione”: un accordo tra Gdo e imprese in cui gli aderenti si sono impegnati a fare promozioni, senza vincoli particolari, su una selezione di prodotti alimentari e di cura della persona. “Con il paniere calmierato siamo convinti di poter dare un definitivo colpo all’inflazione riconducendola a livelli naturali”, annunciò. In gran parte si tratta di offerte che la grande distribuzione e le imprese abitualmente fanno, e che già avevano iniziato a praticare dopo la fiammata inflazionistica della scorsa estate: a partire dall’autunno succede solo che, in gran parte, il bollino delle promozioni dei supermercati viene sostituito con quello del “carrello tricolore” del Mimit. Tanto basta a Urso, un po’ come la mosca della favola di Jean de La Fontaine che credeva di aver trainato la carrozza per la salita, a prendersi il merito per il calo dell’inflazione: “Nel primo mese del carrello tricolore l’inflazione è crollata di 3,5 punti percentuali, migliore performance in Europa! Una frenata senza precedenti. Obiettivo raggiunto!”.

   

Da quando è esplosa l’inflazione, dopo la pandemia e l’invasione dell’Ucraina, Urso ha attaccato continuamente la Bce per la politica di rialzo dei tassi, sostenendo che era una scelta dannosa. Il ministro dei cartelli e dei carrelli, come capita a chi inverte cause e conseguenze, deve essersi realmente convinto che la decelerazione del tasso d’inflazione è stato merito del suo “trimestre anti-inflazione” più che della politica monetaria. E così per mesi, ogni settimana, ha continuato a rilasciare dichiarazioni su come l’inflazione sia stata schiacciata dal suo “carrello tricolore”. Paradossalmente, Urso ha deciso di non rinnovare il “trimestre anti-inflazione” perché “ha raggiunto l’obiettivo”: più efficace della stretta monetaria della Bce, più convincente del Whatever it takes di Draghi, l’abracadabra che aveva fatto abbassare gli spread nell’Eurozona. E nessuno, né tra i colleghi ministri né tra gli amici di partito, con il coraggio di dirgli di smetterla con questa teoria imbarazzante per lui e per tutto il governo.

 

Con il tempo, diventando sempre più sicuro dei suoi mezzi, Urso si è occupato sistematicamente di controllo dei prezzi. A un certo punto è venuto il sospetto che Palazzo Piacentini si fosse trasformato nella sede del Gosplan, l’agenzia che nell’Unione sovietica si occupava della pianificazione economica. Sul Foglio lo abbiamo affettuosamente chiamato Adolfo Urss, ma il ministro non ha gradito l’appellativo ribadendo che lui, da sempre, è considerato nella destra italiana il “thatcheriano” del gruppo. Il che, naturalmente, è molto più utile a descrivere lo statalismo della destra che il liberalismo del ministro. Ogni notizia di giornale diventa per Urso l’occasione per un “tavolo” o per un’iniziativa per regolare i prezzi. Domenico Arcuri, che comunque aveva a che fare con un’emergenza drammatica senza precedenti e metteva il tetto al prezzo delle mascherine, a confronto sembra un libertario stile Javier Milei. Pochi giorni fa Urso ha convocato le assicurazioni, attraverso la “Commissione di allerta rapida di sorveglianza dei prezzi” da lui istituita, per fermare l’aumento dell’Rc auto: “L’obiettivo è che nel comparto si registrino costi pari o inferiori a quelli degli altri paesi europei”. La passione per i prezzi è minuziosa. Sulla scorta del “carrello tricolore”, il ministro ha varato il programma “Aggiungi un posto a tavola che c’è un bambino in più” per indurre i ristoranti a predisporre menù a prezzo calmierato per i bambini.

 

In estate, periodo in cui è particolarmente prolifico, dopo aver letto notizie sullo stagionale aumento dei costi dei biglietti aerei nella stagione estiva, Urso ha lanciato una guerra al “caro voli”: “Abbiamo potuto verificare che l’algoritmo crea una distorsione di mercato”, ha detto annunciando un decreto per bloccare i prezzi. A inizio agosto Urso, dopo aver incontrato il ceo di Ryanair Eddie Wilson, pubblica una foto con tanto di stretta di mano sui social network: “Abbiamo stabilito, dopo la presentazione delle misure contro il caro-voli, di avviare un costruttivo confronto per raggiungere soluzioni equilibrate”. Accordo fatto, come con i benzinai. Qualche ora dopo la foto, intervistato da Repubblica, Wilson definisce il decreto sui prezzi di Urso “ridicolo e illegale” oltre che “populista e di stampo sovietico”. Adolfo Urss, appunto. La storia della norma contro il “caro voli”, poi entrata nel decreto Asset, è stata particolarmente imbarazzante: come era prevedibile, nonostante lo strano appoggio dell’Antitrust, la Commissione europea ha chiesto al governo di rimuovere il tetto ai prezzi perché in contrasto con il diritto comunitario, come sostenevano da principio le compagnie aeree. Così nella versione finale del decreto c’è solo un ampliamento dei poteri dell’Antitrust che ha consentito di aprire un’indagine sulle compagnie aeree, proprio mentre la stessa Authority ne archiviava un’altra che negava l’esistenza di qualsiasi cartello per alzare i prezzi dei biglietti durante le vacanze. 

  

Un altro pastrocchio estivo ha riguardato i tassisti. Con le città piene di turisti in coda alla ricerca di un taxi, Urso è prontamente intervenuto con una norma che prevedeva la possibilità di cumulare le licenze. Il ministro pensava di fare cosa gradita ai tassisti, che invece si sono ribellati perché tocca un totem della loro corporazione. Un’altra marcia indietro, commentata in maniera abbastanza naif dal ministro: “I tassisti ci hanno chiesto di togliere la norma sul cumulo delle licenze, un’opportunità a cui rinunciano. Abbiamo tolto questa norma”. Era, insomma, una di quelle offerte che si possono rifiutare. Alla fine sono rimaste due misure: la facoltà di rilasciare licenze aggiuntive stagionali e temporanee, che però non sono economicamente convenienti; e la facoltà per i comuni di aumentare del 20 per cento le licenze con una procedura accelerata, rinunciando però a una parte del gettito (da devolvere integralmente ai tassisti). “Più licenze per fronteggiare la crescente richiesta e i picchi turistici – dichiarò ad agosto il ministro – anche nel settore taxi arriva la svolta attesa da anni”. In realtà, nessun problema è stato risolto. Urso ha solo prodotto una rottura con i tassisti, un altro pezzo dell’elettorato della destra, come già accaduto con i benzinai, ma senza alcun beneficio per i consumatori. A sei mesi da quell’annuncio, in Italia non c’è un solo taxi in più. Delle grandi città italiane, a cui era rivolto il decreto, solo tre si sono attivate per rilasciare nuove licenze (Milano, Roma e Bologna), di queste Roma userà l’iter tradizionale e non quello previsto dal decreto Asset, e in ogni caso la prima nuova licenza non sarà rilasciata prima dell’estate. Proprio pochi giorni fa la ministra del Turismo Daniela Santanchè ha mostrato il video di una lunga fila di persone in attesa di un taxi alla stazione Termini di Roma: “Bel biglietto da visita per i turisti che arrivano nella Capitale!”. Evidentemente l’obiettivo critico della Santanchè era il sindaco Roberto Gualtieri, ma ha documentato chiaramente che la “svolta” annunciata dal collega di partito e di governo non c’è stata.

 
Nonostante in questa sede lo spazio sia ampio, non è sufficiente ad affrontare e forse neppure a elencare le numerose inutili iniziative in un anno e mezzo di Mimit. La Giornata del Made in Italy, per celebrare “la creatività e l’eccellenza italiana” nelle scuole e in ogni dove; il Liceo del Made in Italy, per studiare quello che viene celebrato nella Giornata del Made in Italy, e che però ha raccolto appena 375 iscrizioni in tutta Italia (lo 0,08 per cento del totale); l’Esposizione permanente del Made in Italy, per esporre ciò che si celebra nella Giornata del Made in Italy e si studia nel Liceo del Made in Italy; il Fondo sovrano per il Made in Italy da 1 miliardo, che ha lo scopo di “attrarre investitori dall’estero per la crescita e lo sviluppo delle filiere strategiche italiane”: non si vedeva un tale spread tra ambizioni e mezzi dai tempi di Dario Franceschini che voleva fare la “Netflix della cultura italiana” con 10 milioni. 

 

Solo pochi mesi fa, Urso ha resuscitato la chimera dei voli suborbitali in Puglia. “Sono stato di recente a Washington dove ho incontrato i più grandi attori commerciali. Con alcuni di loro ho discusso della possibilità di individuare a Grottaglie, in Puglia, il futuro spazioporto, un’ipotesi affascinante che diventa sempre più concreta”. Almeno sei anni fa, il governatore pugliese Michele Emiliano lanciò l’idea con l’obiettivo di attirare turisti e di esportare “i prodotti della filiera agroalimentare pugliese in due ore da Grottaglie a Los Angeles”: la prospettiva, insomma, è quella di spedire in California in maniera espressa orecchiette e burrate, il meglio del Made in Italy. Questo scenario futuristico, o forse folkloristico, non ha però basi concrete. Non solo perché l’impresa con cui c’erano stati contatti per portare in Puglia voli suborbitali e turisti spaziali, Virgin Orbit di Richard Branson, è fallita; ma anche perché secondo molti tecnici – ad esempio quelli del Cnr – Grottaglie non ha i requisiti tecnici per realizzare uno spazioporto. 

 

Nella smania di apparire, il ministro delle Imprese fa spesso incursioni fuori dal suo campo. Con esiti persino più disastrosi. A novembre, su un tema delicato come la gestione del debito pubblico, Urso ha incitato le assicurazioni ad aumentare gli acquisti di Btp. Qualche compagnia ha reagito in maniera diplomatica, ricordando che le assicurazioni sono soggette a regole europee che saggiamente spingono verso la diversificazione e penalizzano l’eccessiva esposizione su specifici asset. L’ad di Generali Philippe Donnet, invece, ha risposto in maniera più secca: “Non ci si può ricordare del settore assicurativo solo quando c’è bisogno”. La replica aspra di Donnet era probabilmente influenzata dall’approvazione del ddl Capitali con cui il governo, intervenendo sulla lista del cda, è entrato a gamba tesa nella governance del Leone proprio per cambiarne gli equilibri. Per giunta Urso, da presidente del Copasir, si era reso protagonista di una campagna per la “sovranità finanziaria” che aveva preso di mira l’invasione dei “francesi” in Italia: in cima alla lista c’erano le Generali, ma poi anche la fusione di Stellantis. La tensione non è piaciuta al Mef.

  
Un’altra uscita improvvida, che di nuovo ha fatto drizzare i capelli al Mef, è stata quella con cui Urso, in una delle tante interviste a tutto campo, ha annunciato un intervento legislativo sugli Npl (non performing loans) per dare la possibilità al debitore di ricomprare a sconto il suo debito ceduto dalla banca a operatori nel settore dei crediti deteriorati. Si tratta di una proposta divenuta nota nel 2019 come “Legge delle mutande”, a causa di un video virale in cui l’allora premier Giuseppe Conte, a Napoli, dialogava da un balcone all’altro con un signore attempato in slip che gli chiedeva: “Preside’, sblocchi la legge 788, riparte l’Italia!”. La 788 è, appunto, una vecchia proposta di legge di Urso, già bocciata dalla Banca d’Italia e dalla Bce perché avrebbe stravolto un mercato che funziona bene e che ha ripulito i bilanci delle banche italiane. Non rendendosi conto di essere nei banchi del governo invece che su un balcone, Urso rilancia la proposta dalle colonne del Corriere della Sera. Il rischio, per un po’, è che a finire in mutande sia l’Italia. Tanto che poco dopo, per placare l’allarme sui mercati, il Mef deve intervenire con un’intervista sul Financial Times in cui il sottosegretario Federico Freni (Lega) rassicura gli investitori internazionali sugli Npl: “Il mercato è sano, quindi non c’è motivo per cui il governo intervenga”.

  
Il problema non sono tanto le uscite fuori dal seminato, le norme inutili, quelle dannose o la mania dei prezzi, ma il fatto che Urso si occupi poco delle cose importanti e su cui può incidere. Come favorire lo sviluppo delle imprese, come facilitarne la nascita e  come rendere l’Italia più attrattiva. Da ministro ha teorizzato il ruolo dello “Stato stratega”, che dovrebbe essere una via di mezzo tra lo “Stato imprenditore” interventista e lo “Stato minimo” liberista, solo che non si capisce quale sia questa strategia. Perché finora la pratica è stata sempre, inevitabilmente, un continuo interventismo sul mercato attraverso la minaccia dell’uso di golden power, commissariamenti, tetti ai prezzi o nazionalizzazioni. A volte, come nel caso di Priolo, può funzionare ma in generale pare che per Urso non ci sia un problema che non possa essere risolto con una statalizzazione a vari gradi di intensità. Il suo Stato stratega con tanto di Fondo sovrano da 1 miliardo, insomma, pare solo uno Stato imprenditore senza molti soldi. 

 

Nessuna delle grandi partite ha avuto per ora un esito positivo. Prendiamo il caso Intel: il potenziale investimento da oltre 4 miliardi di euro, con 5 mila posti di lavoro in un settore ad alta specializzazione, di uno dei più grandi produttori al mondo di microchip è svanito. Un mese fa a Davos Pat Gelsinger, ad della multinazionale, ha dichiarato che l’azienda è concentrata solo sugli investimenti in Germania (30 miliardi) e in Polonia (4 miliardi). E’ vero che il progetto per uno stabilimento di “back-end” in Italia era molto ambizioso, sulla frontiera della tecnologia, e che probabilmente la decisione è dipesa da scelte puramente industriali, ma non sembra che alla questione di come fare microchip Made in Italy sia stata data la stessa attenzione che alle mostre sul Made in Italy. 

 

Il caso dell’Ilva è simile, seppure su un’industria del secolo scorso. La soluzione della crisi, che dura da oltre un decennio, non è affatto semplice. Nel governo c’erano due linee: da un lato quella del ministro per il Sud, Raffaele Fitto, che voleva un accordo con ArcelorMittal per costringere il più grande produttore mondiale siderurgico a investire e mandare avanti lo stabilimento di Taranto; dall’altro quella del ministro Urso che, invece, puntava alla nazionalizzazione e alla cacciata dello straniero, nella convinzione che l’unico obiettivo di Mittal fosse la chiusura. E’ prevalsa questa linea, ma non si sa ancora né come si nazionalizzerà la fabbrica né quale progetto ci sarà per il futuro né chi dovrà attuarlo. Mancano i soldi, il piano industriale, i manager e i partner industriali: per ora si vedono solo migliaia di cassaintegrati in più. La prospettiva è sempre quella della chiusura, ma gestita dallo Stato stratega. Nel frattempo ArcelorMittal ha stretto un accordo con la Francia per investire 1,8 miliardi sull’acciaieria di Dunkerque, con lo scopo di ridurre le emissioni di carbonio. Non si poteva fare nulla di simile a Taranto? Perché lì sì e qui no?

 

L’altro grande dossier è Stellantis. La casa automobilistica va molto bene, con ricavi netti pari a 190 miliardi, in crescita del 6 per cento rispetto al 2022, e un utile record a 18,6 miliardi, in crescita dell’11 per cento. Negli ultimi tre anni il titolo della multinazionale nata dalla fusione tra l’italiana Fca e la francese Psa è aumentato del 70 per cento. Ma l’azienda i profitti li fa altrove molto più che in Italia. E non è questione di prevalenza degli interessi francesi su quelli italiani: la produzione delle auto di fascia bassa e a marginalità minore si sposta verso i paesi emergenti. Nonostante lo stato francese abbia il 6 per cento di Stellantis, pochi mesi fa Carlos Tavares ha respinto al mittente l’invito a riportare la produzione in Francia del ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire: “Investo in Francia, produco veicoli elettrici in tutti gli stabilimenti, ma non vedo perché dovrei creare progetti in perdita”, ha risposto il ceo di Stellantis. Di fronte a questa situazione, il governo dovrebbe costruire una discussione seria con l’azienda per capire come facilitare, e a che prezzo, gli investimenti e la riconversione degli stabilimenti italiani. Invece Urso, che da ministro delle Imprese dovrebbe tenere vivo il dialogo, ha affrontato la questione dal punto di vista della polemica politico-giornalistica tra la premier Meloni e Repubblica, ovvero il gruppo editoriale di proprietà dell’azionista di Stellantis John Elkann. Prima Urso ha minacciato Tavares di portare in Italia un secondo produttore di auto e poi ha tirato fuori dal cassetto – un po’ come la “legge delle mutande” – il suo vecchio pallino dai tempi del Copasir: entrare nel capitale di Stellantis. Il problema è entrambe le pistole messe sul tavolo sono scariche: all’orizzonte non si vede alcun grande produttore disposto a venire in Italia e lo stesso Urso ha dovuto ammettere che l’ingresso nel capitale di Stellantis è solo una fantasia: “Si poteva fare quattro anni fa, oggi è fuori dall’agenda”, ha poi dichiarato in radio. 

 
E così avremo la Giornata del Made in Italy, il Liceo del Made in Italy e l’Esposizione permanente del Made in Italy, ma le multinazionali staranno alla larga dall’Italia: Intel non viene, ArcelorMittal se ne va e Stellantis si disimpegna. “Vogliamo frenare e contrastare le grandi multinazionali” ha dichiarato quest’estate Urso, riferendosi a Uber, per tranquillizzare i tassisti. Almeno questo è un obiettivo raggiunto dallo stratega di Stato. 
 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali