I dati

La democrazia arretra in tutto il mondo, ed è in crisi anche in Occidente

Alfredo Macchiati

L'edizione 2023 del Democracy Index curato dall'Economist, che tiene conto di cinque categorie: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica. Anche quest'anno, alcune tendenze sono state confermate

È uscita in questi giorni l’edizione 2023 del Democracy Index curato dall’Economist, la pubblicazione che dal 2006 si propone di misurare la diffusione e la qualità della democrazia sul pianeta. Pubblicazione dunque di particolare interesse in questi anni in cui abbondano articoli sulla crisi della democrazia e i valori dell’Occidente sono sotto attacco non solo da parte di due grandi paesi, Cina e Russia, storicamente estranei alla nostra tradizione, ma anche all’interno degli Stati Uniti che di quella tradizione sono stati la rappresentazione forse più significativa. L’indice dell’Economist si basa su cinque categorie: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzionamento del governo, partecipazione politica, cultura politica. Le prime due sono quelle che si sono deteriorate maggiormente nel corso degli anni. Rispetto alle altre misure di democrazia disponibili, come quella di Freedom House, quella dell’Economist si caratterizza per essere maggiormente pluridimensionale. Naturalmente si può avere qualche riserva sulla significatività di queste misure che riflettono prevalentemente le valutazioni soggettive dei ricercatori.

 

Economist Intelligence Unit Democracy Index 2023.svg
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Chiariti questi limiti, lo stato di salute della democrazia nel mondo, misurato sulla sua estensione, non è particolarmente rassicurante: la quota di popolazione mondiale che vive in regimi “pienamente democratici” è il 7,8 per cento (era il 12,3 per cento nel 2010); la flessione riflette in buona parte il “declassamento” degli Stati Uniti nelle cosiddette democrazie imperfette, che risale al 2010, e, verosimilmente, la più alta crescita demografica dei paesi non pienamente democratici. Stabile la famiglia delle democrazie imperfette (circa il 37 per cento della popolazione mondiale) dove figura, oltre agli Stati Uniti, anche l’Italia. D’altro canto, risulta in aumento la quota di popolazione che vive sotto i regimi autoritari e i cosiddetti regimi ibridi che raggiunge complessivamente il 54,6 per cento (era il 50,5 per cento nel 2010).
 

Secondo la classificazione dell’Economist nei regimi ibridi, tra cui la Turchia e il Messico, le elezioni presentano irregolarità sostanziali, si può verificare una pressione del governo sui partiti e sui candidati dell’opposizione, si registrano gravi debolezze nella cultura politica, nel funzionamento del governo e nella partecipazione politica, la corruzione tende a essere diffusa e lo stato di diritto così come la società civile è debole, i giornalisti sono sottoposti a pressioni e la magistratura non è indipendente.
 

Il rapporto sottolinea come la democrazia resti il miglior custode della pace: i conflitti armati, che hanno drammaticamente caratterizzato il 2023, anno in cui il numero dei morti in guerra è tornato a crescere raggiungendo livelli che non si toccavano da circa trent’anni, si concentrano in paesi in cui la democrazia è assente o in difficoltà. La tendenziale anche se contenuta flessione dell’estensione della democrazia indica una capacità di resistenza dei regimi democratici ma segnala anche che siamo ben lontani dall’affermazione del modello occidentale che si vagheggiava a cavallo dell’inizio del secolo. Non hanno certamente aiutato la riduzione del benessere economico in ampi strati della popolazione di alcuni paesi avanzati o il mancato miglioramento in altri di più recente industrializzazione.
 

In questa prospettiva è interessante osservare che nel gruppo di testa dei paesi pienamente democratici figurano prevalentemente i paesi del nord Europa, caratterizzati da redditi pro capite molto elevati e da dimensioni relativamente ridotte. La relazione democrazia-benessere è, come noto, piuttosto controversa ma certamente redditi pro capite elevati rendono relativamente più sostenibile il welfare e questo aiuta a costruire il consenso sui valori e le pratiche della democrazia. Anche l’influenza della numerosità della popolazione ha costituito oggetto di discussione nel secolare dibattito sui requisiti di una “democrazia ben funzionante”: anche se non si può certo sostenere che un paese molto popoloso non possa essere pienamente democratico, si ripropone l’antico interrogativo se non sia maggiormente possibile dar voce al popolo – l’essenza della democrazia – e quindi realizzare una maggiore accountability degli eletti nei confronti degli elettori quando le comunità sono meno numerose e la popolazione è ben istruita.

 

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