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Dal nostro inviato

Il comizio di Cagliari. La paura sarda è più forte del gelo fra Meloni e Salvini

Simone Canettieri

Sul palco dissimulano, ma si parlano appena cinque minuti senza trovare un’intesa sul terzo mandato. La premier contro gli inciuci: "La sinistra e le lobby puntavano sullo spread perché volevano l’inciucione"

Cagliari, dal nostro inviato. Semplice: la grande paura sarda supera il grande freddo che si respira sul palco quando Giorgia Meloni chiama gli alleati per l’Inno di Mameli. Matteo Salvini sale per ultimo per il consueto abbraccio (e selfie) di gruppo. Si mette di lato, poi gli dicono di posizionarsi vicino alla premier. Antonio Tajani lo saluta con una pacca sul petto: ciao Matteo. Smorfia del leghista. Il quale, abbastanza incupito, dice una cosa nell’orecchio della leader, scatenata come non si vedeva da tempo (ma questo giustamente è il contesto giusto). Salvini dirà che “Giorgia è un’amica”. Meloni, senza citarlo, assicura che governerà per cinque anni e che loro stanno insieme per scelta. Dissimulazione onesta? Così vogliono le regole del gioco. In Sardegna la destra non può perdere. 

“Se accade io scappo nelle Filippine”, dice il deputato meloniano, genius loci, Salvatore Deidda, detto Sasso. Non si sa quanto sia realmente preoccupata Meloni per il voto di domenica. Di sicuro non ha preso un taxi qui a Cagliari. Perché questa categoria, termometro interessante e mai ostile alla destra, è letteralmente inferocita con Paolo Truzzu, detto Trux, che da sindaco di Cagliari non sarà ricordato negli annali (d’altronde così lo raccontano anche le classifiche del Sole 24 ore). Se votassero i tassisti vincerebbero tutti – Soru o Todde – ma lui mai. In città, nessuno ne parla benissimo, al punto che non si sa se chiuderà la campagna nel capoluogo di regione. Ma questi sono dettagli, forse. L’importante per Meloni – sarda da parte di padre originario dell’Oristanese e addirittura, parrebbe, imparentata con Antonio Gramsci – è far vedere che la sua maggioranza non è fragile come il pane carasau. Il problema è Matteo Salvini che, da quando è morto Navalny, si è rificcato in posizioni un po’ ambiguette, e non proprio in linea con una governo che esprime la presidenza del G7. 


Lui e la premier prendono lo stesso aereo un volo Ita di linea dopo pranzo quando il Consiglio dei ministri è terminato da poco. In alta quota, non si parlano. Si salutano rapidamente prima del decollo. Lei è seduta davanti. Lui dietro. C’è anche Maurizio Lupi, che sta qui con Lorenzo Cesa per il centrodestra in versione “cinque mori” (più Gianfranco Rotondi, il deposto Solinas e i rappresentanti dell’enigmatico Partito sardo d’azione, pronto al voto disgiunto). Una volta atterrati le strade della premier e del suo vice, così ostile nei fatti e nelle parole, si dividono. Lui continua il tour un po’ disperato in giro per l’isola (i sondaggi danno la Lega messa malino), lei va al THotel. Un’ora di relax, schermata dallo staff di Palazzo Chigi gentile e accogliente con i cronisti impiccioni, ma abile a costruire un bel depistaggio. Sicché la domanda del giorno (“scusi Meloni, anche lei pensa come Salvini che la verità sulla morte di Navalny la stabiliranno medici e giudici russi?”) rimane sul taccuino. La premier esce da una porta secondaria, e amen. Tutti in fiera. Alla fiera della dissimulazione. Non c’è il pubblico delle grandi occasioni se per la questura siamo - tutti compresi - 3.500 persone. Militanti e operatori, dirigenti di partito e addetti ai lavori. Colpa dell’astensionismo o veramente questo Truzzu, nonostante Meloni, davvero non decolla? “Vinceremo più per la debolezza degli altri e per le loro divisioni”, dice Lupi, abbastanza lapidario.


C’è forte curiosità per capire se alla fine “gli amici” Matteo e Giorgia si siano parlati oppure nisba. Nel salottino dietro al palco alla fine i due si confrontano per qualche minuto, cinque per la precisione. Chi assiste alla scena scherza: “Sì, parlavano: non ho avuto il coraggio di avvicinarmi”. Premier e vice parleranno “senza trovare un’intesa” sulla faccenda del terzo mandato. Incontro non risolutivo. E così nel dubbio oggi in Senato non si dovrebbe votare l’emendamento del Carroccio agganciato al dl Elezioni. Tuttavia, i registri sono due e i panni sporchi si sa dove devono essere lavati, soprattutto a tre giorni da un voto importante. L’ordine degli interventi dei leader sul palco segna una tendenza che potrebbe verificarsi alle prossime europee e non solo qui sull’isola: parlano Salvini, Tajani e infine, ovviamente, chiude Meloni. Punto in comune: i tre tenori evocheranno le accuse di fascismo che arrivano da Alessandra Todde, grillodem in corsa. Il più simpatico rimarrà il leader di Forza Italia: “Non mi sembra di avere la camicia nera o il fez sulla testa e nemmeno l’olio di ricino e il manganello”. 


La più sferzante sarà la capa della destra: “L’antifascismo. Ammazza che programma”. Salvini invece in modalità toro scatenato (o forse ferito) se la prenderà con tutti, perfino con la Rai (di cui è azionista di maggioranza) perché “nelle trasmissioni della tv pubblica non si parla di queste elezioni”. Un momento abbastanza teatrale è quando il leader del Carroccio, che si sente San Sebastiano, apre le braccia e dice: “Ho un processo a Palermo perché ho difeso i confini: arrestatemi pure, ma prima verrò qui a dare due pedate a quelli della mafia nigeriana perché la droga è una merda”. Nemmeno a dirlo alla fine è la presidente del Consiglio il pezzo forte di questo padiglione che di solito ospita la movida cagliaritana. Se Tajani si rifà all’orgoglio della Brigata Sassari, Meloni tira fuori il meglio del repertorio. Frasi iconiche e romanesco. Falsetto e battute. “Il governo sta per cadere, dicono i giornali e la sinistra. Poi si svegliano la mattina tutti sudati!”. Oppure: “Todde è l’esperimento del campo largo? Ma che è? Un campo di calcio?”. Stupenda questa: “La sinistra e le lobby puntavano sullo spread perché volevano l’inciucione”. Meloni non parla di geopolitica, ma fronte alta e fiera alterna momenti di consolidata arte oratoria e vocine da teatro, climax, artefici di chi è una professionista della politica. Al momento della foto di famiglia si dissimula. Lei e Salvini parleranno cinque minuti. Mario Sechi, direttore di Libero made in Cabras e già portavoce della premier, l’altra sera diceva: “Il centrodestra deve correre, la Sardegna è particolare”.
 

  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.