L'analisi
Il discorso della sinistra è in crisi. Ne serve uno nuovo
La necessità di ispirarsi ai princìpi di giustizia, dignità e libertà, ridefiniti però tenendo conto delle caratteristiche del nuovo mondo in cui l’Europa vive da 50 anni. Da Berlinguer al Pd, le tappe di una crisi ora allo stadio terminale
Il mondo e il discorso della sinistra che abbiamo conosciuto sono in crisi. Al di là dei difetti genetici del secondo, si tratta di una crisi dovuta al mutamento radicale della realtà da cui e per cui erano sorti e anche per questo si tratta di una crisi terminale. Ne discende la necessità di un discorso nuovo, capace di ispirarsi ai principi di giustizia, dignità e libertà – intesi non come astrazioni ma come possibilità concreta di vita individuale – ma anche di ridefinirli tenendo conto delle caratteristiche del nuovo mondo in cui l’Europa vive almeno da quando, circa 50 anni fa, la natalità vi è scesa al di sotto del livello di riproduzione.
E’ quindi utile e interessante capire come siamo arrivati dove siamo, di cosa è necessario disfarsi e a che cosa dobbiamo guardare. Lo faccio per grandissime linee e guardando all’Italia, che presenta due peculiarità. La prima è costituita dal suo essere stata un precursore in almeno tre campi.
E’ qui in Italia che nel 1992-94 si è manifestata la prima crisi sociale e politica delle società moderne “mature”, poi riemersa in varie forme in altri paesi; è da noi che essa ha trovato, con Silvio Berlusconi, una prima per quanto insoddisfacente risposta; ed è sempre da noi che già nel decennio precedente Enrico Berlinguer ha elaborato il primo abbozzo di un nuovo discorso della sinistra. Da questo punto di vista, quindi, un Berlinguer che va rivalutato nel bene (perché ha visto e si è posto un problema nuovo), quanto nel male (perché gli ha dato una risposta sostanzialmente sbagliata), presenta inaspettate affinità con un Berlusconi che ha fatto poco dopo un’operazione simile.
Berlinguer rappresentava anche la seconda peculiarità italiana, espressa dal più forte partito comunista occidentale, a sua volta riflesso del fatto che la catastrofe prodotta dalla combinazione tra fascismo e nazionalismo integrale ha dopo il 1943 oscurato in Italia le menzogne e la catastrofe del comunismo. Ce lo ricorda l’imbarazzo con cui ancora oggi viene affrontata la questione dell’anticomunismo, e si spiega anche così perché, come diceva Lisa Foa, in Italia più che altrove si sia persa la possibilità offerta dal 1956 per un ripensamento capace di generare una nuova sinistra, basata sul superamento dei problemi teorici di quella vecchia e sulla condanna delle enormi sofferenze da essa causate. La critica alle teorie economiche marxiste era infatti già matura da più di mezzo secolo e tantissimi avevano già avuto modo di sperimentare e raccontare la terribile realtà del comunismo di guerra e della collettivizzazione, i genocidi staliniani del 1931-33 (come la carestia kazaka e quella ucraina), il terrore del 1937-38 (quando 800.000 persone furono giustiziate in tempo di pace su base categoriale), o l’oppressione dell’Europa orientale, cui stava per aggiungersi la tremenda catastrofe causata dal Grande Balzo in Avanti di Mao, con le sue decine di milioni di morti.
Come ripeteva un grande storico dell’Urss, Moshe Lewin, la maggioranza del “popolo di sinistra” non volle tuttavia allora ascoltare la verità sul suo Dio benché a proclamarla fosse, in un “rapporto segreto” presto divulgato, il suo papa, cioè Nikita Khrushchev, segretario generale del Partito comunista sovietico. E così, malgrado nel 1956 Italo Calvino potesse commentare quel rapporto, da cui tutti si dicevano scossi, notando che Franco Venturi aveva fatto per anni alle riunioni della Einaudi un rapporto Khrushchev alla settimana senza che nessuno vi prestasse attenzione, i cortei non furono quelli immaginati da Moretti alla fine del Sol dell’avvenire, con un “popolo di sinistra” felice perché il Pci aveva condannato l’invasione dell’Ungheria facendo risorgere quel sole e impedendo al suo buon dirigente di suicidarsi.
Questo anche perché la decolonizzazione, col senno di poi un evento ben più importante della guerra fredda anche per il suo impatto di lungo periodo, stava dando nuova forza e prestigio a un sistema socialista la cui efficacia sembrava essere stata appena validata dal trionfo del 1945. Essa sottolineava anche la forza delle intuizioni del Lenin che nel 1916, in Imperialismo, fase suprema del capitalismo, aveva sostituito la lotta dei popoli oppressi contro quelli oppressori alla lotta di classe come motore della storia. Il problema diventava così, più che la costruzione del socialismo, quello dello sviluppo e della redenzione di popoli, ceti e paesi “arretrati” non a causa della storia, ma perché sfruttati da popoli e paesi sviluppatisi a loro spese, un’idea che trovò la sua formalizzazione nella teoria della dipendenza.
Sul fatto che la politica, e quindi lo Stato, fosse lo strumento più adatto a risolvere insieme ingiustizie e arretratezze convergevano allora in Italia anche importanti settori del mondo cattolico, da ex sindacalisti come il presidente Gronchi a dossettiani come Fanfani. Ciò sembrava inoltre possibile grazie alle risorse garantite dal “miracolo economico”. Oltre a doverlo fare, lo stato poteva quindi ora porsi il fine della riduzione, se non dell’eliminazione, delle ingiustizie e quello della garanzia di diritti più ampi di quelli civili e politici, una linea presto rafforzata e “internazionalizzata” per tanti cattolici dalla rivoluzione del Concilio Vaticano II.
Il centro-sinistra nacque così nel 1962 nazionalizzando l’energia elettrica e costruendo l’Italsider di Taranto, vantato faro di progresso nel Sud “sottosviluppato”, scelte che allora apparivano giuste e naturali tanto a molti democristiani quanto a chi, come Antonio Giolitti, nel 1956 aveva abbandonato il Pci ma era rimasto convinto della superiorità dello stato, dello sviluppo, e della programmazione come strumenti per arrivare a una società migliore. Per i comunisti si trattava di assiomi evidenti, che solo il modello sovietico incarnava compiutamente, provando la sua superiorità rispetto ai sostenitori delle mezze misure. Il Pci ne trasse una forte rendita politica: dopo aver vissuto in un limbo, negando fino al 1962 (quando Amendola avviò anche un’autocritica sull’atteggiamento antieuropeo) il “miracolo economico”, ritenuto impossibile perché il capitalismo viveva la crisi della sua “fase suprema”, esso poteva ora proporsi come l’unico partito capace di portare conseguentemente a compimento quanto “tutti” ritenevano necessario.
L’impianto teorico della sinistra ottocentesca sembrava così ancora saldamente in piedi, anche per quanto riguardava il riconoscimento del ruolo positivo delle avanguardie e della loro azione. Esso aveva tuttavia già subito dei cambiamenti fondamentali, legati al riconoscimento del legame tra socialismo e nazionalismo (dalla fine del XIX secolo il primo era presentato a popoli e ceti oppressi come la realizzazione compiuta, perché “nazional-popolare”, delle loro aspirazioni) e alla già ricordata sostituzione operata da Lenin di classi operaie bianche dominanti, trasformate in corrotte “aristocrazie operaie”, con i popoli oppressi e i loro partiti comunisti come principali agenti della rivoluzione. Era una teoria basata sulla grammatica delle “nazioni proletarie” di Enrico Corradini, di cui espandeva i confini al di là degli stati europei, e che trasformava la lotta di classe interna in conflitto internazionale di popoli, aderendo alla logica della guerra come motore del mondo.
Di queste trasformazioni si erano accorti in Italia intellettuali come Panzieri, Foa, Tronti, o Asor Rosa che negli anni Sessanta criticarono la visione “nazional-popolare” di un Togliatti che riprendeva la politica di Stalin, e riaffermarono per un’ultima, fuggevole stagione la centralità della “classe”. Essi subirono poi, illudendosi di guidarla ma finendone travolti anche per la limitatezza dei loro schemi interpretativi, la trasformazione genetica vissuta dalla sinistra negli anni Settanta.
Questi ultimi si presentano infatti come una vera e propria piattaforma girevole ideologica, di portata e forza ingigantite in Italia dalla profondità e durata dei conflitti seguiti al 1968. La sinistra entrò nel nuovo decennio con una visione progressista, modernizzatrice, classista, tecnologica, avanguardista e statalista, che guardava con favore al nucleare civile, ai piani urbanistici, alla programmazione economica, e ai diritti sociali collettivi, e ne uscì dieci anni dopo con una cultura antiprogressista (quando non addirittura sostenitrice della decrescita), antiscientista (dalla Primavera silenziosa alle Guardie rosse), ecologica e fortemente influenzata dai Limits to Growth del Club di Roma, antinucleare, che anteponeva il “piccolo è bello” a grandi progetti visti con sospetto e ostilità crescenti (pensiamo alle dighe del bellissimo Wild River dell’ex comunista Elia Kazan e del Vajont), guardava con angoscia apocalittica a una population bomb vera, ma che si stava velocemente disinnescando, difendeva i diritti umani individuali (un tempo “borghesi”) e faceva definitivamente suo, in salsa leninista, il mito herderiano del popolo oppresso e del suo riscatto, dal Vietnam alla Palestina e all’Irlanda per finire alle valli alpine di un simpatizzante del Pci e poi di Democrazia proletaria come Umberto Bossi. Persino il lavoro, già esaltato come valore centrale della “civiltà socialista”, ne uscì svilito, e non solo per il passaggio dalla Chiave a stella di Primo Levi all’operaio massa che detestava e sabotava la macchina: il socialismo stava per essere ridefinito da Mitterrand come pensione dignitosa a 60 anni seguita da 20 anni in buona salute, vale a dire esaltando il non-lavoro.
Fu in questo clima che ebbe luogo l’evoluzione di Berlinguer, cominciata con soluzioni tattiche suggerite da esperienze forti (il compromesso storico dal golpe in Cile; l’austerità dalla crisi petrolifera del 1973, a sua volta manifestazione economica della decolonizzazione) e proseguita con un eurocomunismo rivelatosi presto deludente per chi già nel 1976 dichiarava di sentirsi più al sicuro nella Nato (un’affermazione che molti “progressisti” oggi contesterebbero). A fine 1981 arrivò infine la dichiarazione che la “spinta propulsiva” dell’Ottobre, e quindi del comunismo, era finita, legata al comportamento della “classe” in Polonia e alla sua sconfitta a Mirafiori.
A chi ne faceva discendere, anche nel Pci, un ritorno naturale nell’alveo socialista, Berlinguer oppose però un netto rifiuto. Quest’ultimo era certo legato al suo giudizio severo nei confronti di Craxi, visto come una minaccia (persino per la democrazia) anche per il suo tentativo – fallito per la guerra che gli venne fatta ma anche per la debolezza di ripescaggi come quello di Proudhon – di costruire a sua volta un nuovo discorso di sinistra socialista, nazionale ed europeo. Tuttavia, analizzando le proposte che Berlinguer elaborò in quegli anni risalta anche, e forse soprattutto, il tentativo di guardare al futuro e non al passato, cui il socialismo riformista, come il comunismo sovietico, di fatto apparteneva, elaborando un discorso nuovo.
Il suo nocciolo stava nella combinazione tra austerità, anticonsumismo e moralismo, capace di toccare temi come l’ecologia, la critica dello sviluppo, il pacifismo (pensiamo a Comiso e agli euromissili), la difesa dei diritti contro corruzione, protervia e ingiustizie, e quindi anche il femminismo, in una visione “perbenista” del mondo nuovo da costruire, una visione tuttavia totalmente priva di una credibile teoria delle vie da seguire e degli strumenti e dei mezzi da usare. La morale sostituiva in altre parole la politica, di fatto svalutandola, anche a causa della delusione per il naufragio di una “grande politica” in cui si era, e molto, creduto e la povertà degli strumenti sopravvissuti a questo naufragio, da cui si era salvata la fede nella “diversità” ma non la capacità di analisi, che avrebbe richiesto categorie intellettuali nuove. In questo senso è possibile sostenere che Berlinguer anticipò alcune delle correnti della sinistra americana moderna, anch’essa moralista e perbenista.
Soprattutto, era forte la sua sintonia con le trasformazioni, anche psicologiche, dell’Italia degli anni Settanta, dove era maturata una nuova coscienza diffusa, legata all’idea di un sistema di diritti diffusi, interconnessi e crescenti. Essa fu anche il frutto dell’incontro tra sinistra e cattolici, di cui permise un approfondimento anticipato dal compromesso storico, sviluppato dalla svolta moralistica e perbenista del decennio successivo, e infine realizzato dalla nascita di un Pd che ha unito appunto tradizione comunista italiana e sinistra democristiana. Il Pd è stato quindi anche il trionfo tardivo di una politica berlingueriana che molti hanno erroneamente giudicato sconfitta a fine anni Settanta, e dunque anche un altro dei lasciti di lungo periodo della visione di Berlinguer.
Le categorie forti della sinistra degli anni Settanta-Ottanta erano quindi quelle di popolo e diritti. Ai limiti politici e ideali della prima, fondata su identità e quindi inevitabilmente chiusura, e per molti versi affine al patrimonio ideologico della destra, e al suo di fatto portare all’accettazione della guerra, ho già accennato (ne discuto in I popoli esistono davvero).
La seconda, anticipata dalla nostra Costituzione come da quella di Weimar, si basava su un ragionamento logicamente impeccabile: i diritti “universali” civili e politici non sostenuti e garantiti dai diritti sociali non sono realmente tali, perché i deboli non possono goderne. Poiché i diritti sociali sono diritti costosi, perché questo edificio teoricamente inoppugnabile possa reggere occorre però che la società abbia a disposizione risorse crescenti, tanto più che il numero dei diritti costosi tende ad aumentare. Ecco perché, come sosteneva Olof Palme, l’esistenza delle socialdemocrazie era fondata su una crescita economica continua, base a sua volta di una redistribuzione anch’essa crescente.
In Italia il meccanismo che reggeva questo schema era rafforzato dalla presenza di una sinistra comunista priva di responsabilità di governo e che poteva quindi farsi paladina dell’aumento continuo dei diritti sociali. Essa sfruttava anche così la sua rendita di posizione rispetto a quella socialista, costretta da quelle responsabilità a fare i conti con la realtà, e forse anche per questo portata a puntare sui diritti civili.
Il risultato fu un ricorso, in Italia maggiore che altrove, a un debito pubblico destinato sul medio-lungo periodo a aggravare i problemi, soprattutto ma non solo delle giovani generazioni, ma che fu dapprima facilitato da un’inflazione che ne riduceva i costi senza incidere sui redditi degli operai forti, difesi dal punto unico di contingenza voluto dal sindacato cattolico e accettato da una Confindustria che puntava sulla svalutazione.
Nessuno tuttavia pensava che il meccanismo sviluppo-diritti si stesse esaurendo. Negli scritti di Norberto Bobbio, per esempio, la coscienza della crisi del “miglioramento continuo” era certo presente, ma riguardava la sua dimensione morale e politica, di cui la Prima guerra mondiale e i totalitarismi avevano mostrato la fragilità. La crescita e il progresso tecnico e economico, indispensabili all’espansione continua (e sempre più anche alla “difesa”) dei diritti sociali continuavano a essere dati per scontati.
Eppure gli anni Settanta avevano posto le basi per un cambiamento radicale, che si manifestava nella svolta ecologica e antiprogressista cui ho accennato e che richiedeva un altrettanto radicale rilettura del funzionamento di quel meccanismo. Torniamo alla decolonizzazione e quindi alla perdita della centralità e dei privilegi del “mondo bianco”; al suo brusco andare sotto (a partire dal 1972) la soglia della riproduzione demografica; al conseguente progressivo invecchiamento della sua popolazione, accelerato dai grandi progressi medici (un invecchiamento che si sta estendendo all’intero pianeta); all’inizio del distacco tra Stati Uniti, sempre meno europei a causa del mutamento dei flussi migratori, e una comunità europea che, grazie alla distensione, cominciava a espandersi a est in termini di influenza economica e culturale; all’emergere di nuove “officine del mondo” (come le tigri asiatiche e poi la Cina); al rifiuto del modello “occidentale” preannunciato dal fondamentalismo islamico, ecc.
Erano cambiamenti enormi, che esigevano nuove interpretazioni e nuovi discorsi, ma la dolcezza della vita, della pace e del miglioramento continuo reale seguiti al 1945, nonché la presenza di grandi ricchezze accumulate, permisero di rimandare il problema e di elaborare piuttosto quella visione di un mondo “normalmente per bene e giusto” abbracciata dalla sinistra rifondata dagli anni Settanta. Si spiega anche così la fioritura di “teorie del complotto” per dar conto dei motivi per cui quella visione non si riusciva a concretizzarsi e anzi occorresse già difendersi dalla “erosione dei diritti”: la colpa era di chi la rifiutava, della Thatcher, di Reagan o del monetarismo, e non si vedevano i grandi cambiamenti che avevano fatto dei Trenta gloriosi una stagione irripetibile, come lo sono di regola i “miracoli”, ingenuamente imputando la decisione di centinaia di milioni di persone di fare meno figli o il boom innescato dalle riforme di Deng al “neoliberismo”.
Proprio allora, alla metà degli anni Ottanta Gorbachev sembrò per un momento capace di rivitalizzare il socialismo, rieccitando i vecchi circuiti di una sinistra europea che anche per questo ne fece un mito, suscitando lo scetticismo di un Napolitano incredulo che le sorti del Pci potessero dipendere da Gorbachev. Questi era stato però capace di riaccendere le speranze e così ancora nel 1989 Occhetto annunciò a una grandiosa manifestazione, piena di bandiere rosse, che avrebbe difeso il nome “glorioso” di comunista. Franco Venturi rimase stupefatto da “una delle cecità più forti che si possano immaginare, è come chiudere gli occhi di fronte alla realtà”, e infatti, solo pochi mesi dopo quel nome “glorioso” dovette essere abbandonato.
Nacque allora un “popolo di sinistra” depresso perché, dopo aver vissuto negando la realtà, si vedeva ora defraudato delle sue speranze senza riuscire a capirne i motivi. I suoi milioni di membri, inclusi tanti intellettuali italiani, entrarono in uno stato d’animo che ravvivava quella negazione e nutriva nuove teorie del complotto, ma portava anche a guardare con rimpianto al passato, a una identità perduta che qualcuno sarebbe venuto un giorno a rianimare. Di qui la paradossale adozione di teorie del risveglio di quel “popolo” molto simili a quelle del nazionalismo, teorie che aiutano certo a vivere, ma fanno parte di quella stessa negazione della realtà che porta nel deserto.
Crollava allora anche un altro sogno, e non meno vertiginosamente, anche perché chi lo aveva coltivato era stato al potere ed era quindi ancor più colpito dalla delusione. Penso al sogno democristiano di una Italia più giusta e cristiana, con una famiglia e una morale forti, frantumato in pochi decenni da uno sviluppo, voluto e sostenuto, che aveva prodotto invece un paese scristianizzato, il divorzio, l’aborto, le chiese vuote e le famiglie in crisi. Era un fallimento altrettanto tragico e inatteso, e anch’esso infatti produttore di teorie del complotto la cui bestia nera divenne per molti un Berlusconi padre e profeta di immoralità, licenziosità e consumismo. Nel 1991 insomma, in Italia gli sconfitti che si sentivano tali erano due, gli ex comunisti e molti ex democristiani, sicché è possibile sostenere che il Pd sia il prodotto finale dell’unione di due sconfitte politiche e ideali, entrambe animate da un sogno di “decenza morale”, così come il compromesso storico che lo aveva preceduto era stato negli anni Settanta l’alleanza tra due grandi partiti-progetto in crisi.
Malgrado le illusioni di chi nel 1991 credette di aver “vinto”, la sconfitta era però più generale. Essa riguardava tutto il nuovo Occidente nato nel 1945, anche se si manifestava in modo diverso nelle sue due parti, la principale delle quali, quella americana, era rinvigorita (ma anche minata politicamente) dalla gigantesca immigrazione innescata dalla riforma del 1965. In Italia, per motivi legati alle grandi illusioni generate dal miracolo e dal 1968, e dal tentativo di concretizzarle anche ricorrendo al debito, la crisi si manifestò per la prima volta in modo radicale. Una delle parole chiave positive della sinistra degli anni precedenti, “riforma”, acquistò allora, quasi di colpo, un significato negativo, visto che si riformava per salvare, ma ridimensionandolo, quello che non ci si poteva più permettere.
Come scoprì lo stesso Berlusconi nel 1994, il riformismo stesso era ormai una brutta parola, e con esso la politica nel suo complesso, una cosa sporca praticata da corrotti in cui fu trovato il capro espiatorio della situazione in cui il paese versava per scelte e pratiche che erano state invece popolari e collettive, come dimostra la storia delle pensioni baby o di invalidità, degli assegni di accompagnamento ecc.
Da un punto di vista generale era solo una manifestazione del comportamento che porta a cercare in altri i responsabili di situazioni difficili anche quando queste sono frutto delle nostre scelte e del nostro passato, come dimostrano il caso della Russia degli anni Novanta o quello di tanti paesi dell’America Latina. Ma una società senza politica, che svaluta la politica, e in particolare la politica come ricerca e non solo come gestione, perde il contatto con la realtà e la capacità di navigare il futuro. Questo anche perché molti giovani di valore non saranno più attratti da una professione disprezzata. La catastrofe fu aggravata da scelte che favorirono il collasso dei partiti, come le leggi elettorali di coalizione, la sostituzione della tripla preferenza con la singola, e infine l’abolizione delle preferenze, voluta da un moralismo che ha così affidato ai vertici la selezione di candidati scelti quindi per la loro “affidabilità”, condizionando il comportamento di chi continuava per fortuna a subire il fascino della politica.
Alla fine del decennio Massimo D’Alema, dopo aver inventato l’alleanza che sconfisse Berlusconi nel 1996 (anche grazie alla rottura di questi con la Lega), cercò di riunificare la sinistra italiana portandola nell’alveo di una socialdemocrazia europea allora trionfante. Egli faceva così la scelta che i “miglioristi” avevano sperato Berlinguer compisse 20 anni prima, ma la faceva senza una produzione ideale che non fosse appunto l’abbraccio a quello che sembrava lo spirito del tempo. I suoi Democratici di Sinistra, nati dall’apertura ad ambienti laici, socialisti e ambientalisti, dopo aver facilitato la caduta di Prodi, non riuscirono a costituirsi in partito egemone, e sopravvissero per qualche anno aderendo con Piero Fassino a una tradizione socialdemocratica che mostrava però da anni la fragilità della sua impostazione a contatto con i grandi cambiamenti intrecciati e seguiti ai “Trenta gloriosi”.
L’ottimismo degli anni Novanta, la nascita dell’Unione europea e dell’euro, che garantì più di 10 anni di bassi tassi di interesse, rendevano intanto possibile un comodo immobilismo che in Italia si basò anche su un bipolarismo imperfetto. Immaginato come strumento di stabilizzazione, quest’ultimo in realtà rendeva, e non solo in prospettiva, ancor più difficile la gestione di una società in via di veloce differenziazione e individualizzazione. La coscienza dei suoi limiti spinse però, piuttosto che in direzione di un più realistico ed elastico proporzionalismo, più adatto a società complesse, alla nascita del Partito democratico nel 2007 e del Popolo della libertà nel 2009, due tentativi, entrambi fallimentari, di rimediare, attraverso il compattamento, al malfunzionamento delle aggregazioni maggioritarie precedenti. Il Pd, in particolare, benché nato all’insegna di un ottimismo subito spezzato dal 2008, metteva insieme, come abbiamo visto, due sconfitte e due debolezze velate da un moralismo che alimentava un senso di superiorità tanto pericoloso per chi lo predicava quanto irritante per chi lo subiva.
Da allora, e dalla crisi del berlusconismo, la politica italiana è stata caratterizzata da un andamento che si potrebbe definire bipolare, fatto di rapide accensioni (Grillo, Renzi, Salvini, Meloni) e altrettanti rapidi spegnimenti, accompagnati dal crescere di un astensionismo nutrito anche dal disincanto di una parte degli “accesi” in seguito al naufragio delle attese che avevano legato a uno di quei nomi. L’elemento di stabilità è stato finora fornito da governi tecnici, e quindi formalmente non politici, e da maggioranze spurie che poco avevano a che fare con il bipolarismo teoricamente vigente. I primi, in particolare, sono apparsi, e in parte sono stati, il correttivo a una politica cieca e incapace di decisioni realistiche, ma anche la testimonianza della crisi della liberaldemocrazia causata dalle grandi trasformazioni legate, e seguite, al trentennio dei miracoli, una testimonianza che difficilmente si può immaginare come soluzione, visto che incarna quella crisi e può aprire a soluzioni notabilari o anche stabilmente autoritarie.
In questo quadro si sono consumate le sconfitte dei riformismi italiani, di regola ma non solo di sinistra, degli anni tra il 2008 e il 2022. La mancata riflessione politica e intellettuale sui loro motivi, e la frantumazione del riformismo italiano, legata anche a quella incapacità di riflessione, confermano la sterilità e l’esaurimento del discorso di una sinistra che, al di là di un prezioso europeismo, sembra incapace di ingaggiare il dialogo col nuovo mondo in cui viviamo ormai da alcuni decenni e quindi di guardare al futuro.
Si tratta certo di un futuro non gradevole, ma che anche per questo ci sfida e che si può affrontare con successo solo trovando le risposte più adeguate ai suoi tratti fondamentali, che non è difficile individuare: la denatalità e l’invecchiamento, vale a dire le grandi questioni della vita e della morte; un’immigrazione indispensabile ma generatrice di tensioni e problemi; il potenziamento del livello scientifico e tecnologico di un’Europa e di un paese che potrebbero altrimenti decadere ulteriormente. L’elenco potrebbe continuare, ma è evidente che si tratta di grandi temi che riguardano tutti e di cui bisognerebbe quindi parlare con tutti, come si proponeva di fare, ed era in questo nel giusto, il Partito democratico di Veltroni. Si tratta di ragionamenti che andrebbero inoltre fatti insieme, dimenticando le “colpe” e le divisioni di un passato che è morto e non vale perciò la pena di rimestare.
C’è insomma bisogno di un discorso radicalmente nuovo, da sviluppare guardando alla realtà per arrivare a una nuova idea di Italia, di Europa e se possibile di Occidente, capace di animare un progetto competitivo rispetto a quello sbagliato, ma popolare, di una destra che non solo è più avanti ma è anche oggettivamente favorita in un paese invecchiato e preoccupato. E la situazione internazionale, la crisi dell’Occidente nato nel 1945, il ritorno della guerra rende ciò ancora più urgente.
E invece a un anno dalla sua ascesa al potere, il gruppo dirigente del principale partito riformista si è rivelato un re nudo, senza un’analisi realistica del mondo e amante di declamazioni retoriche che si rivolgono moralisticamente solo a deboli da proteggere, che quindi di fatto sminuisce, e non sanno parlare ai forti, senza i quali è difficile reggere il futuro. Il discorso e lo spirito identitario da cui questo gruppo è animato, incarnato dalla scommessa sul risveglio di un presunto “popolo di sinistra”, indica l’incapacità di leggere un paese segnato negli ultimi anni da bruschi spostamenti elettorali, e quindi da un’estrema mobilità, legata ai grandi cambiamenti in corso. Soprattutto quel discorso e quello spirito, rivolti al passato, gli impediscono di immaginare un futuro che solo un’apertura razionalmente guidata potrebbe “pensare”. Il suo profilo non è quindi all’altezza della drammaticità della situazione, ed esso è anche, e inaspettatamente, poco energico. Sarebbe bello se un nuovo gruppo dirigente, aprendo agli altri riformatori, cominciasse il cammino per arrivare a un discorso nuovo e capace di parlare a tutti, ridefinendo in modo intelligente, realistico e facile da capire i nostri problemi e i nostri interessi di italiani, di europei e di occidentali. Non è facile, ma ne varrebbe la pena.