L'editoriale dell'elefantino
Ma quale regime. L'Italia è semplicemente il solito casino, ma con una certa stabilità
Altro che regime autoritario. Gli allarmi costituzionali evocati dai manganelli sono francamente esagerati. Il fascismo di ritorno non c’è, se c’è, se ne intuisce qualcosa nei comizi propalestinesi, antisraeliani, e nelle manifestazioni di antisemitismo o antigiudaismo
Ai ragazzini si deve una certa deferenza, l’intervento serio e responsabile di polizia va riservato ai teppisti e alla strenua difesa di Carrefour. Certo a Pisa hanno un modo tutto loro, un po’ triste, di manifestare, ne feci esperienza personale. Preferisco il surrealismo dei livornesi, meglio un livornese in piazza che un pisano all’uscio. Detto questo, che c’entra il regime? Abbiamo avuto per decenni un ministro di polizia, Mario Scelba, e pratiche di celere devastanti. Scelba aveva molti difetti, ma la legge antifascista, l’unica, è sua. I partiti dominanti, la Democrazia cristiana al governo e il Partito comunista all’opposizione, sapevano che cosa era il conflitto anche nelle piazze. Ma le accuse di regime venivano dosate. Ora il costituzionalismo è in materia una overdose permanente. Non mortale, perché alla fine nessuno ci crede veramente, ma pericolosa. Il fascismo di ritorno non c’è, se c’è, non si vede. Se ne intuisce qualcosa nei comizi propalestinesi, antisraeliani, e nelle manifestazioni di antisemitismo o antigiudaismo.
Free Gaza from Hamas è uno slogan di schietto antifascismo, e anche il suo portatore è stato, come si dice, identificato dalle forze dell’ordine. “Israele non deve più esistere” ha un poco delicato sapore di SS, un sentore di soluzione finale. Il regime culturale, quello, è forte, attraversa il famoso immaginario dei più giovani, si tinge di colori rossobruni, è naturalmente pacifista quando si parla di resistenza ucraina, di Navalny morto di freddo, di Meloni filoamericana e altro. Ma in termini istituzionali e politici, tutto è sotto controllo. Mattarella sa stare al suo posto e riprendere il ministro dell’Interno se necessario. Volano stracci e insulti fenomenali, anche legittimi se fuorionda, e non si assiste a niente di vendicativo tranne gli sfottò sulla saga del podolico. Eppoi il regime è già finito non ancora nato, non a Ventotene, ma nella illustre e corposa Sardegna, dove libere elezioni lo hanno a quanto sembra, anche se le cose definitive si sanno solo a impiccababbu morto, già rovesciato. La televisione è nelle salde mani dei talkshowmani, dal Nove alla Sette alla molto democratica rete dell’establishment Mediaset. Gli adeguamenti Rai sono sagre tradizionali e trasversali ancor più del podolico. Le lamentele appaiono francamente gratuite. Le geremiadi platealmente esagerate. Un paese che vive, sebbene denominato nazione, di 110 per cento, di Pnrr, di magistrature attente ai generali omaccioni che hanno l’impudenza di farsi avanti nel mondo all’incontrario, un paese così non è un regime autoritario, è il solito casino però dotato infine di una certa stabilità.
Quello è il vero problema. Siamo abituati al celere cambio di passo e di presidente del Consiglio. Politica estera e di difesa stabili hanno un sapore amaro e inedito. Il trasformismo è la nostra formula o ruota della fortuna, e perfino il fascismo storico ne ha saputo qualcosa. Ora però con queste leggi elettorali di sinistra che premiano il centrodestra, e un campo largo isolano che paga il dovuto tributo alle scienze statistiche e attuariali di Conte, si teme la legislatura piena, dunque si evoca il santo manganello come simbolo maledetto della sempiterna mutazione genetica, della degenerazione della democrazia e altre bellurie descritte focosamente da Elkann editore ed eredi vari. Sistemerà tutto un bel confronto televisivo fra Giorgia ed Elena, non proprio un duello rusticano o all’arma bianca. La prenderei più bassa, anche per non sputtanare l’antifascismo che è o dovrebbe essere una cosa seria.
Oltretutto Alain Minc, che non si spiega la rassegnazione delle élite francesi alla prospettiva Le Pen dopo Macron, con il pretesto del paragone tra lei e Meloni, ha scritto giusto ieri sul Figaro, come un memo per il professor Zagrebelsky: “Giorgia Meloni è presidente del Consiglio. Se mettesse mano allo stato di diritto, il presidente della Repubblica, la cui popolarità è impressionante, avrebbe i mezzi per riportarla alla ragione. Niente di simile nel nostro sistema, non c’è alcuna possibilità di ricorso, lo sappiamo, al di sopra dell’Eliseo. Gli italiani hanno elaborato, dall’Ottocento, una cultura politica che hanno piuttosto beffardamente chiamato ‘il trasformismo’, che Giorgia Meloni pratica chiaramente, con talento, e che consiste nell’imitare senza tradirsi. Le nostre rigidità intellettuali, la nostra rigidità cartesiana, i nostri artritismi ideologici ci impediscono di scommettere su un comportamento simile”.