il fortino
Salvini si è blindato. La sicurezza del segretario dopo la Sardegna: “Nella Lega nessuno potrà sostituirmi”
Il vicepremier nonostante la disfatta sarda tira dritto: "Tutto il partito è con me". Paragone: "Quelle di Zaia, Giorgetti e Fedriga non sono leadership alternative"
“Non c’è nessuno che possa prendere il mio posto. Non riusciranno a farmi fuori. Tutta la Lega è con me”. Matteo Salvini mentre se lo ripete tra sé e sé ostenta una grande sicumera. Il vicepremier sa che, undici anni dopo essersi preso il partito, l’ha trasformato a tal punto da non contemplare neppure una minima contendibilità. E’ per questo che nell’immediato post Sardegna, al di là del risultato deprimente del Carroccio, ha ricominciato a girare per il paese come se nulla fosse. Lancia l’Italia dei sì, inaugura cantieri, bisticcia con il ministro Crosetto su Vannacci, fa visita al suocero Denis Verdini nel carcere di Sollicciano. Mettersi in discussione? Tutt’altro. Scruta la squadra di governo, i gruppi parlamentari, e si rincuora: tutta una schiera di fedelissimi pronti a immolarsi per lui. “E poi, ma chi ci crede davvero alla leadership di Zaia e di Giorgetti? Nessuno”, racconta uno come Gianluigi Paragone, che le dinamiche interne al mondo leghista le conosce bene.
Con una certa ricorrenza, dopo ogni nuova elezione in cui la Lega sprofonda nei consensi, c’è qualcuno che dice: adesso a Salvini gli fanno le scarpe. Lo ha ribadito ieri l’ex ministro leghista Roberto Castelli, secondo cui “la parabola di Salvini è finita”. Eppure al ministro delle Infrastrutture va dato il merito di aver saputo costruire per tempo un’articolata meccanica difensiva. Che lo salvaguarda dai tentativi di Opa più o meno ostili. E che ha messo una sordina alla cosiddetta “seconda Lega”, quella che si faceva coincidere con lo spirito pragmatico dei governatori del nord. Lo spartiacque decisivo furono le elezioni politiche del 2022: in quell’occasione Salvini riuscì a liberarsi anche degli ultimi residuati di giorgettismo, vicini a un’idea di Lega più bossiana, federalista. I vari Roberto Volpi, Matteo Luigi Bianchi e Paolo Grimoldi non vennero ricandidati. Così adesso tra i vari ministeri e nei due rami del Parlamento siedono (quasi) solo salviniani di ferro: si va dal ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli alla ministra per le Disabilità Alessandra Locatelli. Dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, che a volte sopravanza anche lo stesso ministro Piantedosi, al viceministro dei Trasporti Edoardo Rixi, fino al sottosegretario del Lavoro Claudio Durigon e ad Alessandro Morelli, sottosegretario di stato alla presidenza del Consiglio alla Programmazione economica. Dai capigruppo di Camera e Senato Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, fino alla sfilza di deputati e senatori semplici: Andrea Crippa (vicesegretario della Lega), Claudio Borghi, Alberto Bagnai, Stefano Candiani, Andrea Paganella, Gian Marco Centinaio, Giulio Centemero, Luca Toccalini. Per non parlare dei riferimenti sui territori come il segretario della Liga veneta Alberto Stefani (deputato) o il coordinatore della Lega lombarda Fabrizio Cecchetti (deputato anch’egli): tutti strettissimi confidenti del segretario. Che in questi anni di leadership non hanno praticamente mai contestato nulla al loro numero uno. E non pensano di farlo nemmeno in questa fase di consenso periclitante del Capitano.
Come spiega ancora Gianluigi Paragone, che è stato anche direttore della Padania e che i leghisti ha continuato a frequentarli anche quando era in Parlamento tra le file del M5s, “Salvini è riuscito a portare la Lega dal 3 al 30 per cento. Qualsiasi potere negoziale lo si deve a lui”. Eppure la sua non messa in discussione deriva anche “da una totale mancanza di altre leadership”, racconta ancora il giornalista ed ex parlamentare. “Zaia preferirebbe fare il sindaco di Venezia piuttosto che scendere a Roma. E’ troppo venetista. E anche Giorgetti, che gli è sempre stato avversario, oramai gioca una partita tutta in solitaria, solo per se stesso. Mentre per quanto riguarda Fedriga, che abbia il fisico per prendere voti e fare il leader è tutto da vedere”. Pure il famoso Comitato nord, nato su impulso di Bossi per recuperare il radicamento federalista, non si sa che fine abbia fatto. E anche i malumori espressi dallo stesso Senatùr vengono derubricati a borbottii che al massimo possono alimentare il dibattito per un paio di giorni.
Solo che al di là delle dinamiche intrapartitiche, la sensazione di inscalfibilità che avvolge Salvini una qualche eco sul governo la produce. Perché avere un alleato che si sente immune alle débâcle elettorali come quella sarda (dove la Lega ha preso il 3,8 per cento) porta la premier Giorgia Meloni a chiedersi fin dove possa spingersi il suo vice per cercare di sussumere nuovo consenso. Persino oltre le accuse per l’indagine aperta sul generale Vannacci? Tanto che al suo commento di ieri, “siamo al ridicolo”, ha dovuto rispondere il ministro della Difesa Guido Crosetto: “Non c’è nulla a orologeria. E’ un’inchiesta iniziata mesi fa. Sono automatismi tecnici che non riguardano neanche la parte decisoria politica. Spiegherò con una nota della Difesa in modo che tutti abbiano chiaro di cosa si tratta”. E insomma tra una tappa della campagna elettorale in Abruzzo e un sopralluogo tecnico in un cantiere a Desenzano del Garda, tra un post sull’immigrazione e i diktat quotidiani contro le città 30 km all’ora, è come se Salvini alla sparuta (e quasi inesistente) minoranza della Lega che gli contesta la crisi in atto dicesse: après moi le déluge!