Un'esposizione alla Biennale di Venezia

Idee per una critica non punitiva

Protestare per la causa palestinese alla Biennale si può, ma con buon senso

Francesco Bonami

In Arabia Saudita, paese dove esiste un apartheid di genere ufficiale, è stata inaugurata la Biennale Diriyah Contemporary Art. La direttrice artistica è Ute Meta Bauer, la donna che sta cercando di rimuovere il padiglione di Israele da un'altra Biennale, quella di Venezia

Il 20 febbraio è stata inaugurata la Diriyah Contemporary Art Biennale in Arabia Saudita. Direttrice artistica Ute Meta Bauer, tedesca. Titolo “After the Rain”, dopo la pioggia. Titolo molto ottimista, sia per la zona geografica dove si tiene la Biennale sia per il fatto, molto simbolico, che sul nostro mondo contemporaneo la pioggia di guerre e violenza non sembra avere intenzione di smettere. Comunque sia, un bel pezzo del mondo dell’arte contemporanea ha partecipato all’inaugurazione senza batter ciglio. Nessun arricciamento di naso, lamentela, protesta, appello, raccolta firme e cosi via. Anche se in Arabia Saudita esiste un apartheid di genere ufficiale, si tagliano teste e altre parti del corpo di chi infrange la legge e i dissidenti sono eliminati in stile “Texas Chainsaw Massacre”.

 

 

Nulla in contrario, paese che vai usanze che trovi e, visto l’entusiasmo di curatori e artisti invitati a Diriyah, anche apprezzate con una sorta di silenzio assenso. L’Arabia Saudita ha anche un padiglione nazionale alla Biennale di Venezia, proprio dentro l’Arsenale, non in qualche nobile palazzo nascosto chissà dove fra le calli. Una location immobiliare molto ambita e invidiata. L’artista quest’anno sarà AlDowayan, in nome del “gender washing”, tanto siamo a Venezia mica a Riad. Anche in questo caso nessun malumore, nessuna raccolta firme per i diritti civili o altro. Nemmeno “Madre” Nan Goldin di Calcutta, la fotografa attentissima alle ingiustizie e i crimini commessi in nome dell’arte, ha dato segni di disagio.
 

La Goldin però è alla testa dell’uragano anti israeliano che ha già raccolto più di 12 mila firme per costringere il padiglione d’Israele ai Giardini della Biennale a ritirarsi. Ora non è questione di chi è più buono o più cattivo, più barbaro o meno barbaro. È questione di coerenza e anche di dignità. Si chiede al Padiglione d’Israele di ritirarsi, quando invece per coerenza e par condicio gli artisti dovrebbero ritirarsi loro, in blocco, dall’intera Biennale, per protesta e in nome della pace, dei diritti umani e così via. Ma non lo fanno. La Biennale è un’occasione troppo ghiotta e unica per poterci rinunciare.
 

Se ritirarsi da una Biennale è difficile allora prendiamo ispirazione dalla Biennale stessa. Nel 1977 l’allora presidente Carlo Ripa di Meana organizzò la Biennale del Dissenso. Se tanto sta a cuore la causa palestinese perché gli artisti invitati non ospitano ognuno od ognuna nel proprio spazio l’intervento di un artista palestinese, che visto il titolo della 60esima Mostra di arti visive, “Stranieri ovunque”, più straniero ovunque di così non si può. Magari chiedendo al Qatar, molto attento all’arte contemporanea e senza un padiglione, di finanziare, oltre a Hamas, l’iniziativa o la protesta. Così facendo anziché boicottare comodamente Israele, punendo artista e curatori coinvolti nel padiglione, ma pure loro vittime della tragedia, le centinaia di artisti invitati creerebbero un padiglione palestinese diffuso, un caos positivo e non punitivo. La Biennale del Buon Senso.
 

Se l’arte e la cultura non sanno fare casino quando ne hanno l’occasione non servono a nulla. Servono ancora meno quando si abbandonano al moralismo e al perbenismo a senso unico. Protestare chiedendo ad altri di sostenere o subire le conseguenze della propria protesta è ridicolo e codardo. Non è questione di essere pro o contro Israele, è questione di essere responsabili delle proprie parole e delle proprie azioni. Firmare è semplice, fermarsi più complicato.

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