l'anticipazione
Destra sinistra e Roma. Estratti da un libro di Antonello Caporale e Salvatore Merlo
E’ la capitale, è la città più sfasciata d’occidente, ma i conservatori (come i progressisti) non hanno un’idea che non sia episodica per restituirle dignità
In libreria da oggi. “Destra, sinistra e viceversa” di Antonello Caporale e Salvatore Merlo (Marsilio, euro 18). Due elettori riluttanti e apolidi dialogano l’uno con la destra e l’altro con la sinistra, spronandole a mettere a frutto quelle che individuano come occasioni.
E’ impossibile immaginare che il rilancio di Roma non diventi un argomento qualificante della destra. Roma è l’Italia e l’Italia è Roma, e il suo stato di salute, la sua presentabilità riguardano direttamente il prestigio e il decoro dello Stato, l’immagine del nostro Paese nel mondo, il suo orgoglio e la sua identità culturale, politica ed economica. Il suo status. È evidente che investire nella manutenzione e nel decoro di Roma sia un fatto cruciale per la nazione nel suo complesso. In sostanza, quando si elegge un sindaco di Roma, a questa persona e alla sua giunta si affida niente meno che l’immagine stessa del nostro Paese. Le si affida la presidenza della Repubblica e il Parlamento. Palazzo Chigi e il Senato. Persino il ministero degli Esteri. Non dovrebbe allora come minimo essere eletto da tutti gli italiani, il sindaco di Roma? E dunque, non dovrebbe essere il governo nazionale, espressione democratica della volontà di tutti i cittadini elettori, ad amministrare la capitale? Detto questo, com’è possibile che la destra non abbia un’idea in proposito?
L’Italia è un Paese in cui, nel tempo e anche per ragioni politiche – compreso il successo elettorale della Lega Nord –, si è imposto ed è stato estensivamente applicato il cosiddetto principio di sussidiarietà, secondo il quale le decisioni devono essere sempre e preferibilmente prese al livello territoriale di governo più vicino ai cittadini, in modo da coinvolgere direttamente le comunità locali. Un principio fatto proprio, nel nostro Paese, dalla sinistra, che ha addirittura modificato la Costituzione per inserirvelo, e che ha promosso l’autonomia amministrativa, com’è noto, inclusa quella delle città, tra cui ovviamente Roma. Osservare quanto avviene in alcuni tra i principali Paesi democratici del mondo, quelli a cui storicamente ci siamo sempre ispirati, dovrebbe a questo proposito far riflettere. In Germania, per esempio, il governo centrale ha una presenza diretta in alcuni quartieri della capitale, Berlino, attraverso le cosiddette “Zone di governo federale” o Bundesbereiche. Questo modello di governo diretto dei quartieri da parte dello Stato rende l’idea dell’importanza di Berlino come capitale federale, nonché del desiderio di garantire un controllo particolareggiato su questioni di interesse nazionale. Anche Washington è un esempio classico di capitale gestita direttamente dallo Stato centrale. È infatti il Congresso degli Stati Uniti ad avere autorità sulla legislazione e sull’amministrazione della città. Parigi ha, a sua volta, qualcosa di simile: è dotata di una complessa struttura amministrativa in cui alcune zone sono governate direttamente dallo Stato centrale, a causa della presenza di importanti istituzioni governative e siti culturali di rilevanza nazionale, mentre la maggior parte della capitale è amministrata a livello locale attraverso i suoi arrondissement, ciascuno con un suo grado di autonomia.
Roma è l’Italia e l’Italia è Roma. Se Roma puzza di topo fritto, tutta l’Italia puzza di topo. E’o non è un problema?
E Roma? A ottobre del 2022, a governo di destra non ancora insediato, il presidente leghista della Regione Veneto Luca Zaia volle immediatamente ricordare allo schieramento di centrodestra come la sua regione attendesse l’attuazione del regionalismo differenziato previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione e su cui in Veneto, e non solo in Veneto, si era tenuto nel 2017 uno specifico referendum. Nei mesi successivi le richieste federaliste della Lega si sono fatte sempre più pressanti nei confronti di Palazzo Chigi e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma paradossalmente, se al Nord reclamano la realizzazione della differenziazione funzionale, amministrativa e gestionale, la città di Roma attende persino l’applicazione del suo status di Capitale d’Italia, riconosciuto come tale nel 2001 nella complessiva revisione del Titolo V della Costituzione, ma poi rimasto prevalentemente inattuato, tranne che per alcuni piccoli dettagli. Non vorremmo passare per menagrami, o foschi pessimisti, ma è l’osservazione dei fatti e degli equilibri politici nel centrodestra a farcelo pensare: la spinta federalista di questa destra del nativismo settentrionale, la Lega mal riverniciata di nazionalismo, fa ritenere che la questione Roma resterà irrisolta. O meglio, che sia forse irrisolvibile per l’altra destra, quella nazionale di Fratelli d’Italia, quella che non ha scoperto ieri la parola “patria” e non voleva appendere il tricolore nel gabinetto. Ma chissà. A partire dal dopoguerra, la Capitale “non capitale” ha subito una sorta di silente ma feroce “Romafobia”, originata dalla caduta del fascismo. Il trauma vissuto con la dittatura spinse i costituenti a guardare con ritrosia all’idea di costituzionalizzare la natura di Roma quale città capitale della nazione. Questa Romafobia è proseguita poi con l’imporsi del leghismo. Ci è voluta la riforma costituzionale del 2001 per riconoscere che la capitale della Repubblica è proprio Roma. Sicché la vicenda che ne racconta il declino quale città-simbolo della nazione descrive, nel corso dei decenni, una progressiva e inesorabile spoliazione della sua funzione di capitale. Una spoliazione generata da diversi fattori tra loro cospiranti, probabilmente (non ultimo la mediocrità della politica), e da un’attrazione ascendente verso Milano, che ha visto ripetuti tentativi, in alcuni casi riusciti, di rilocazione di plessi finanziari, sedi amministrative e società. Una sequela torrenziale di sgangherate leggi-provvedimento negli anni cinquanta e sessanta trasferirono fondi ingenti a Roma, sì, ma in un quadro estemporaneo, privo di una visione globale e soprattutto in assenza di una complessiva governance degna di una capitale. E dunque oggi c’è ben poco da stupirsi se la città affonda nella sua impudica immondizia, metaforica e letterale. Ma se Roma fa schifo, allora fa schifo anche Palazzo Chigi, che è la sede del nostro governo. Se Roma è piena di monnezza, allora è pieno di monnezza anche il nostro Parlamento. E se Roma puzza di putrido, allora, purtroppo, puzza di putrido anche il Quirinale, che è simbolo della Repubblica non meno della città che lo ospita. Non c’è bisogno di un trattato di diritto costituzionale per spiegarlo. Capitale decadente, nazione decaduta. Il default dell’una precede e determina quello dell’altra. È mai concepibile che la destra nazionale e patriottica non abbia presentato una proposta per la Capitale d’Italia che vada oltre la mera retorica e le tattiche elettorali occasionali? L’argomento è centrale. Se la palma di Sciascia saliva verso nord, a Roma non da oggi è giunto il babà avariato, qualche mozzarella di bufala malcreata, una sorta di napoletaneria deteriore, una meridionalizzazione ma mostrificata. Il caos e il degrado come norma di un ordine indecifrabile.
Non c’è una sola capitale europea che sia amminisrativamente (dis)organizzata come Roma
Le circa mille tonnellate di monnezza che durante l’estate fermentano per le strade della Capitale d’Italia, con 40 gradi all’ombra, non le si può nemmeno raccogliere perché gli impianti di trattamento in pratica non esistono più. Sono andati a fuoco. Forse mai come in questi ultimi anni la grandezza che tramonta aveva avuto a Roma il sapore del ratto, il pelo del cinghiale, il grido del gabbiano, l’afrore della putrefazione e la puzza di bruciato che raggiunge pure piazza di Spagna. Nemmeno con Virginia Raggi, la sindaca grillina, quella che diceva “signori, il vento sta cambiando”. Perché ogni sindaco di Roma in carica è il peggiore. E fa rimpiangere il precedente. Roma non è una città per sindaci, questo è il fatto. È un’emergenza nazionale ben più del gas, dell’elettricità e del petrolio. Peggio di un terremoto. Perché Roma è l’Italia. Tutto, d’altra parte, è in emergenza a Roma: dai trasporti pubblici alla nettezza urbana, dalle strade ai parchi. Il governo di turno, che sia di sinistra, di destra o tecnico, se la cava sempre promettendo poteri speciali al sindaco di turno. Non so se voi, cari lettori, avete mai preso un mezzo pubblico a Roma, o anche soltanto la metropolitana. C’è un racconto di Asimov nel quale si scopre che le barzellette sono un esperimento alieno in corso da migliaia di anni: raccolti tutti i dati, gli alieni si ritirano e le barzellette non fanno più ridere. Ecco. Gli autobus e le metropolitane di Roma non fanno ridere bensì piangere, tuttavia non è del tutto da scartare l’ipotesi che siano anch’essi un esperimento alieno che riguarda la percezione umana dello spazio e del tempo. Mettiamo di ritrovarci sulla linea B, fermata Cavour, a un passo dalla stazione Termini. Ecco il pannello che annuncia il prossimo convoglio: “Treno in arrivo tra 5 minuti”. Passano 4 minuti sul nostro orologio, ma sul tabellone è passato un solo minuto: “Treno in arrivo tra 4 minuti”. Sicché nella metro di Roma, alla fine, 5 minuti ne durano 20. E il treno passa con la stessa frequenza del Frecciarossa per Milano. Se Einstein fosse vissuto abbastanza da visitare la Roma contemporanea, ne sarebbe stato galvanizzato: lo spazio e il tempo non soltanto rappresentano un unico continuum quadridimensionale, ma sono pure senza dubbio “relativi”. D’altra parte, per averne la riprova, basta salire sull’altra linea della metropolitana, la A, quando al mattino annuncia “prossima fermata Subaugusta” mentre in realtà sei a piazza Barberini. In pieno centro. Quel sobbalzo, quegli sguardi di panico tra i passeggeri sono la reazione gretta di chi non si rende conto di quale privilegio sia poter contribuire al progresso della fisica quantistica: lo spazio-tempo si piega, si flette. Siamo dunque grati al sindaco. Tuttavia, se egli è un alieno come nel racconto di Asimov, vorremmo anche sapere quando pensa di prendere l’astronave e di ritirarsi su Marte. Ma basterebbe? Forse no, a parte gli scherzi. Circa settecento metri separano la stazione Termini dal Viminale. Ci sono circa settecento metri, dunque, tra il luogo dove la sera del 31 dicembre 2022 il senzatetto polacco Aleksander Mateusz Chomiak accoltellò una giovane turista israeliana riuscendo a dileguarsi senza essere fermato, e l’ufficio dell’attuale titolare del ministero dell’Interno Matteo Piantedosi, che è un ministro voluto dalla Lega. Seicentoquaranta metri separano invece la Camera dei deputati dall’angolo di strada in cui il 21 dicembre 2022 una giovane romana è stata punta alla schiena con una siringa da uno sbandato mentre metteva la catena alle ruote della sua bicicletta. E ci vogliono infine appena dieci minuti per raggiungere il Quirinale, la casa del presidente della Repubblica, dal lurido marciapiede in cui la notte del 14 maggio 2022 una donna di trent’anni fu brutalmente percossa e violentata da un venticinquenne del Senegal. Non c’è angolo della Roma più brutta, più sporca e più cattiva, la capitale degli otto omicidi in quaranta giorni nel 2022, dei 244 casi di stupro, la città delle baraccopoli sul lungotevere, quella che detiene il record di 121 morti stradali perché nessuno controlla i limiti di velocità così come non raccoglie l’immondizia, non c’è insomma teatro dell’orrore romano che non sia in continuità con i simboli dello Stato nazionale, con il Parlamento, con Palazzo Chigi, con la presidenza della Repubblica, con il ministero dell’Interno e con le sedi dei partiti che punteggiano il centro storico. Eppure nessuno sembra ritenersi responsabile, nemmeno esteticamente, della condizione penosa in cui Roma è stata ridotta anche da una sequela di inqualificabili amministrazioni comunali che hanno individuato nel caos, nell’insicurezza e nel degrado la norma di un ordine ormai indecifrabile.
Il massimo della fantasia è stato quello di sussidiare la capitale o di immaginare un’ulteriore devoluzione di poteri
È mai possibile che la destra nazionale, i cui dirigenti peraltro sono quasi tutti romani, non abbia manifestato un’idea per la Capitale d’Italia che non sia esclusivamente retorica ed episodicamente elettoralistica? Un’idea che non sia un disegno di legge pasticciato sulla devoluzione dei poteri? Ed è possibile che la destra nazionale non sappia rispondere ai mai sopiti istinti settentrionalisti di una Lega che si è adesso riverniciata di stinto patriottismo? Non si vuole qui nemmeno sollevare la questione della classe dirigente che la destra propone (anzi propina) a livello locale, in comune. Alle ultime elezioni, nel 2021, a Roma fu scovato un improbabile candidato sindaco che s’era descritto così: “Mi ispiro all’imperatore Augusto. Quello che disse di voler essere tribuno della plebe a vita”. Ovviamente perse. Si chiamava Enrico Michetti, era stato presentato dalla destra come Mr. Wolf, quello competente che risolve i problemi, ma a un certo punto s’era pure scoperto che il candidato non conosceva il suo stesso programma di governo. Gli chiedevano del futuro di Roma, e rispondeva parlando dell’Impero romano (la monnezza che riempiva le strade forse arrivava dalle Gallie). Gli chiedevano della pubblica amministrazione, e diceva che “la pubblica amministrazione è come la Pietà di Michelangelo”. Neanche Corrado Guzzanti ai tempi dell’Ottavo nano. Ma non intendo qui contestare le persone, le scelte, le candidature, né tanto meno ripercorrere il periodo in cui la destra governò assai male Roma con Alemanno. Benché, a dire il vero, un elettore o un potenziale elettore della destra avrebbe qualche pretesa di miglioramento nell’offerta della classe dirigente. Il punto è un altro: è il paradosso di una destra nazionale che ancora non ha un’idea della Capitale della nazione in generale, né di Roma come città in particolare. E invece pretenderei dalla destra che si smentisca l’ironico pessimismo di Ennio Flaiano, quando diceva che “di tutte le dominazioni subite dall’Italia, la peggiore è stata quella degli italiani”. Bisognerebbe cominciare con l’ammettere, appunto, che Roma non è una città per sindaci. D’altra parte non esiste nessuna capitale al mondo che sia gestita come una città normale. Ed è ovvio. Lo sapevano i piemontesi, che arrivati nella città papalina ne modificarono persino l’urbanistica. Lo sapevano bene i fascisti, che negli anni trenta trasformarono Roma in una città governata dal Consiglio dei ministri e la diedero in amministrazione a Giuseppe Bottai, uno degli uomini più intelligenti del Ventennio. Era ministro dell’Educazione e contemporaneamente governatore di Roma, perché si riconosceva l’esistenza di un interesse nazionale nella gestione di un’entità locale. E invece oggi ogni cosa svillaneggia la più bella città del mondo, che è anche il cuore dell’Italia, mentre le immagini di Roma fanno il giro del pianeta e sono il biglietto da visita della nazione. Giorgia Meloni conta di rilanciare il Paese con il Pnrr, come Mario Draghi prima di lei. Il presidente della Repubblica esprime ottimismo. Ma come fanno, tutti loro, se non si occupano del posto in cui esercitano la loro altissima funzione?
Questa non è una città per sindaci, e una vera destra dovrebbe attribuire il controllo della città al governo nazionale
Roma puzza di bruciato. Poiché le sterpaglie non vengono mai tagliate, ormai da quasi quindici anni, nemmeno nei parchi pubblici. Il falò dell’abbandono amministrativo e del degrado urbano. I bilanci in rosso e la decadenza generale, dal manto stradale che uccide i motociclisti sino agli autobus che saltano le corse perché i mezzi sono troppo vecchi e cascano a pezzi. 7 Fallire nel recupero di Roma significa probabilmente fallire su tutto. E infatti, nella sua dichiarazione di fiducia a ottobre del 2022, la leader del governo Meloni fece riferimento esplicito alla questione romana. Inoltre la commissione Affari costituzionali, nell’aprile del 2022, aveva prodotto un documento di riforma costituzionale, una sintesi di altre proposte di legge che spingono affinché Roma diventi una città-regione con poteri legislativi. Si tratterebbe di un decentramento, non di un accentramento. E viene da dubitare che sia ciò di cui la Capitale ha bisogno. Tuttavia questo processo ha forse accelerato una situazione che per anni è rimasta immota, ferma, tra annunci enfatici e immobilismo totale. Ma si vedrà. Fino a oggi Roma non è stata “pensata” dallo Stato, è stata soltanto oggetto di finanziamenti elargiti attraverso leggi provvisorie, gestite senza alcun tipo di visione. Ciò che la politica non ha mai voluto davvero comprendere è che erogare finanziamenti lasciando grottescamente irrisolta la natura della città, la sua forma giuridica, i suoi poteri, significa andare incontro ad altissime probabilità di fallimento e di sperperi. Così l’unico linguaggio parlato dalla politica è stato quello del “sussidiare Roma”, senza pensare di mettere mano davvero alla sua architettura complessiva. Fondi, magie contabili, gestione commissariale del debito, tutto qui. I poteri, non solo quelli finanziari, del governo cittadino devono invece affrontare sfide cruciali in termini di eventi, di rappresentanza diplomatica e istituzionale, come il Giubileo del 2025, specialmente dopo che la città ha perso l’occasione dell’Expo 2030. La struttura amministrativa obsoleta e da ente locale richiede una completa ristrutturazione, in particolare nell’attuazione dei poteri legislativi. E la ridefinizione della forma giuridica dovrebbe andare di pari passo con la riforma delle strutture tecniche e amministrative incaricate di mettere in pratica la “capitalità” della città e soprattutto con un diverso approccio della politica, meno partigiana e più ecumenicamente incline all’idea che Roma sia la capitale di tutti. Allora, Roma come Parigi? Roma come Washington? Roma come Londra? Roma coincidente con la città metropolitana? Roma-regione? Roma co-gestita con lo Stato?
Le proposte avanzate dai giuristi e dagli esperti spesso non tengono conto del vero elemento cruciale: la politica, appunto. Poiché, nella realtà, Roma rimane un enigma, più affine, dal punto di vista della gestione, a un comune di ventimila abitanti che a una moderna capitale nazionale. Roma è il Ponte sullo Stretto di Messina del design istituzionale. E alla politica – sarà forse demagogico dirlo – ha sempre fatto comodo questa dimensione incompleta e incompiuta, dispersa in frammenti tribali di strette di mano e di decisioni spicciole, in cui asfaltare una singola strada viene fatto passare come qualcosa di straordinario, nemmeno fosse la costruzione di una centrale nucleare a idrogeno. La Roma attuale non può svolgere il ruolo di polo di attrazione, hub o capitale, poiché manca di una sua razionalità e di una visione complessiva. Imporre una razionalità in modo improvvisato, senza una previa e organica operazione di ristrutturazione che coinvolga la mentalità, la cultura, il senso istituzionale, la selezione e la formazione del personale, senza una revisione delle funzioni svolte, risulta impossibile. Eppure siamo quasi arrivati a intraprendere l’azione che avrebbe dovuto essere effettuata non tanto per ravvivare la città, ma almeno per fermarne il declino: commissariare Roma e affidarla a tecnici avulsi dalla dimensione del consenso politico, che passo dopo passo ha generato un deserto di logiche distorte. Ma sarebbe ancora meglio se la gestione, totalmente slegata dalle logiche del consenso, finisse in capo al governo nazionale. Questa è l’idea che la destra, nazionale appunto, dovrebbe accogliere. Un ministro-governatore, non eletto dai cittadini romani. Si dirà: equivarrebbe alla morte della democrazia. Ma non sarebbe così: se Roma è l’Italia, devono essere gli italiani a scegliere chi la governa, e dunque chi governa l’Italia deve anche governare Roma. E poi, comunque sia, la democrazia, procedendo in questo modo, si sta gradualmente spegnendo, giorno dopo giorno, logorata dalla visione estremamente limitata che la politica ha della città, dalla totale assenza di una classe dirigente capace di coniugare la conoscenza della complessità amministrativa e del territorio con competenze tecniche specializzate, dall’eccessiva frequenza di nomine spesso di dubbia qualità, fino all’insozzamento metaforico e letterale dei simboli stessi della Repubblica e della nostra democrazia. Gli accoltellamenti a duecento metri dal Viminale. La puzza di topo abbrustolito intorno al Senato. L’Altare della Patria che è poco più d’uno spartitraffico. I corazzieri che nella solennità d’un funerale di Stato trasportano il feretro del defunto presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pestando bucce d’arancia, carte d’imballaggio, di gelati, di sigarette, a liste, a pallottole, a foglie morte, a trucioli e a coppetti. Capitale indecente, nazione decaduta. È o non è una priorità per la destra?