L'intervento
Perché la legge sul finanziamento alle tv locali limita la pluralità d'informazione
"Una manovra costruita da un drappello bipartisan di senatori che scavalca le competenze della magistratura e impone una legge che tutela gli interessi di pochi e mette a rischio almeno ottocento posti di lavoro", dice il direttore di Telenord
È un brutto inciampo costituzionale, uno scivolone su uno “scalino” tirato su per limitare la pluralità d’informazione che incide pesantemente sulla vita di aziende e lavoratori. Ed è una manovra costruita da un drappello bipartisan di senatori che scavalca le competenze della magistratura e impone una legge che tutela gli interessi di pochi e mette a rischio almeno ottocento posti di lavoro.
L’oggetto della vicenda è il finanziamento pubblico alle televisioni locali, che in base al dpr 146 del 2017 privilegia un centinaio di emittenti sparse in tutta Italia, tagliando di fatto fuori tutte le altre.
Lo scoglio alla pluralità d’informazione, diritto sancito in Italia dalla Costituzione, arriva con il cosiddetto “scalino” che premia con il 95 per cento dei contributi le televisioni che occupano solo le prime 100 posizioni di una classifica stilata su identici parametri.
E infatti partono subito i primi ricorsi mentre il manipolo bipartisan cerca di fermarli provando a conferire forza di legge al decreto inserendone un richiamo nella legge di Bilancio del 2018. Una mossa che ha gettato fuoco ulteriore sulla battaglia condotta da tutte quelle televisioni penalizzate drasticamente dal dpr del 2017, che posizionandosi sotto la centesima posizione in classifica, pur garantendo un inequivocabile servizio di utilità pubblica possono complessivamente accedere solo al 5 per cento dei finanziamenti.
Così nella battaglia per la pluralità d’informazione, e in alcuni casi per la stessa sopravvivenza delle più piccole realtà informative, si è arrivati a quello che si pensava fosse un vero punto di svolta. È la sentenza del Consiglio di Stato, la 7880 del 2022, che annulla il regolamento relativamente allo “scalino” 95-5 per cento. Chiare le motivazioni della decisione, che spiega come queste percentuali alterino la libera concorrenza e siano “incompatibili con il principio del pluralismo informativo”. Non solo, il Consiglio di Stato parla anche di “effetti distorsivi della concorrenza”. Dunque “scalino” cancellato.
Tutto finito? No, perché il ministero delle Imprese e del Made in Italy guidato da Adolfo Urso continua ad applicare lo scalino e così le emittenti penalizzate continuano a ricorrere.
La questione con la graduatoria 2023 è arrivata nuovamente al vaglio del Consiglio di stato e un mese prima della discussione del merito del 18 gennaio va in scena al Senato della Repubblica un vero e proprio blitz bipartisan. Senatori sostenitori (convinti) della nuova legge “ammazza l’informazione” sono il leghista Massimiliano Romeo, brianzolo, ospite gradito e gradevole tra le altre di Telelombardia. Al suo fianco Francesco Boccia, senatore Pd. La sua firma sulla legge “inciampo” ha creato più di un malumore all’interno dei dem, ma certo non ha suscitato altrettante critiche negli studi di TeleNorba, emittente leader nella sua Puglia. E non è certo un caso che anche il forzista Maurizio Gasparri sia tra gli accesi firmatari della legge, il senatore non ha mai nascosto una legittima opinione che non lo ha mai visto contrario alle grandi concentrazioni editoriali. Più defilati e ora imbarazzati Maran (FdI) e l’ex ministro pentastellato Patuanelli.
A quali interessi politici rispondono i firmatari? Certo non a quelli di almeno 800 lavoratori dell’emittenza locale e anche o soprattutto non alla possibilità di avere e consolidare più di una voce all’interno della stessa informazione televisiva regionale. Ora saranno i giudici costituzionali a dire l’ultimo parola. C’è ancora un elemento, rilevante: è dal 2017 che le televisioni contrarie allo “scalino” e i loro avvocati, chiedono il giudizio della Corte Costituzionale. Spiega l’avvocato Eleonora Zazza e Fabrizio Magliaro: “Le società non chiedono maggiori stanziamenti pubblici, ma solo un diverso ed equo criterio di distribuzione”.
Domandando al Ministero, oggi come dal 2017, solo di assumere una posizione neutrale continui a difendere questo sistema distorto di distribuzione dei contributi che già nel 2017 la AGCM segnalò. Questo non può e non deve essere più tollerato.
Giampiero Timossi, direttore responsabile Telenord