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Su taxi e Ncc urge una nuova legge quadro. Ci scrive Andrea Romano

Andrea Romano*

La Consulta solleva dubbi sul blocco delle nuove licenze Ncc, ma queste sono l'ultimo dei problemi nella grande catastrofe italiana del servizio pubblico non di linea. La principale ragione è nell'anzianità di servizio della legge che regola il settore

Non vorrei scandalizzare nessuno, ma le licenze taxi non sono un problema. O meglio, sono l'ultimo dei problemi nella grande catastrofe italiana del servizio pubblico non di linea. Soprattutto dopo l'ordinanza della Corte Costituzionale venuta ieri, con la quale si assesta un altro colpo ad un campo dove la politica ha largamente fallito - e in modo equanime, con responsabilità ben condivise tra destra, sinistra e centro - e dove le incrostazioni del fallimento sono ormai talmente ingombranti da rendere comici e disperati i tentativi di risolvere questo o quel singolo aspetto della catastrofe. Alcuni esempi? Il "Decreto Asset" ha dato facoltà ai sindaci di aumentare il numero delle licenze taxi, ma senza prevedere come in passato alcun guadagno per le amministrazioni comunali. E poiché i sindaci erano abituati a tenersi qualcosa in cassa dall'avvio di nuove licenze, in cambio della prevedibilissime tensioni che la categoria dei tassisti scarica sulle città ad ogni nuova concessione, le nuove licenze non si vedono.

 

Il servizio taxi deve essere distinto dal servizio Ncc? I nuovi regolamenti proposti dal ministro Salvini, in netto contrasto con la giurisprudenza italiana ed europea, prevedono che un qualunque operatore Ncc debba obbligatoriamente far trascorrere un'ora di pausa tra un servizio e un altro. Come se per distinguere un avvocato penalista da un avvocato fiscalista, o un salumiere da un verduraio, si imponesse ad una delle due categorie un intervallo di un'ora tra un cliente e un altro oppure un giretto a vuoto magari nel traffico. Anzi, creando traffico. Così come prevedono, quegli stessi regolamenti, che un cittadino che sceglie di utilizzare il servizio Ncc debba comunicare preventivamente allo Stato il tragitto che intende compiere e l'orario in cui intende spostarsi. Con tanti saluti al buon senso, oltre che ai diritti del consumatore, alla libertà d'impresa e alla privacy.

  
E tuttavia la grande catastrofe del servizio pubblico non di linea ha ragioni storiche e politiche. Che non sono solo la tenace difficoltà italiana ad accogliere standard di concorrenza europei (non statunitensi né taiwanesi, con rispetto degli USA e di Taiwan), né la capacità di una specifica categoria a trovarsi padrini politici più efficaci di altri a tutelarne le rendite di posizione. La principale ragione della catastrofe è nell'anzianità di servizio della legge che regola questo settore. La 21/1992 risale infatti a trentadue anni fa: quando non c'era internet, né alta velocità ferroviaria, né euro, né Schengen, etc. La classica era geologica, se guardiamo anche superficialmente al cambiamento travolgente che in questi decenni ha investito le nostre città, le abitudini e le esigenze dei cittadini, le tecnologie della mobilità.

 

È del tutto evidente che una legge di oltre trent'anni fa non solo non può essere il perimetro entro il quale governare il cambiamento, ma è essa stessa causa delle incrostazioni che hanno reso l'Italia un modello al contrario su come rendere la vita impossibile a cittadini e turisti che vogliono spostarsi nelle città come e quando vogliono. D'altra parte i vari tentativi di risolvere questo o quel singolo aspetto della catastrofe si erano già rivelati fallimentari, ancor prima dell'ordinanza della Consulta di ieri. La modifica fatta con la legge 12/2019 è stata prima sforacchiata dalla Corte Costituzionale nel 2020 sul punto cardine dell'obbligo di rientro in rimessa degli Ncc e poi definitivamente affondata dal Garante per la Privacy sui troppi dati richiesti a passeggeri e vettori. Le varie e successive osservazioni delle autorità di garanzia, dalla Privacy all'Autorità dei Trasporti all'ultima dell'Antitrust su cui il Foglio ha scritto ieri, sono ormai una montagna.

 

La Corte Europea di Giustizia ha già dato indicazioni ineludibili, con buona pace degli interessi di quartiere. Tutto dovrebbe spingere la politica - e il Governo innanzitutto - a fare l'unica cosa sensata. Rimuovere in un colpo solo tutte le incrostazioni che si sono stratificate in trentadue anni e mettere mano ad una nuova legge quadro sul trasporto pubblico non di linea. Ascoltando tutti, dai taxi al turismo passando per i sindaci e le associazioni dei consumatori, e proponendo al Parlamento una legislazione sistemica che alla vigilia del Giubileo e della nuova stagione turistica metta al centro non questo o quel gruppo ma gli interessi dei cittadini e di una più efficace mobilità urbana. Senza altri tentativi di mettere toppe, senza il trucco di scommettere su questo o quel regolamento. Il tempo c'è. Prova ne sono le tante norme approvate a passo di carica, soprattutto da questo governo.

  

Chi scrive ha scelto di rappresentare una parte di questo mondo, gli NCC, dopo dieci anni di esperienza parlamentare in larga parte trascorsa in Commissione Trasporti. Questo settore c'è e vuole dare una mano, superando un conflitto con i tassisti che non solo è uno dei tanti frutti avvelenati della grande catastrofe ma oggi è del tutto superato da una realtà che vede la domanda di trasporto non di linea molto più ampia di un'offerta che rimane insufficiente per i limiti della legge. Alla fine si tratta solo di lasciare ai cittadini la libertà di muoversi come e quando preferiscono e alle imprese italiane quella di fare una cosa semplice: lavorare, tutte. Anche perché peggio di così sarà impossibile fare.
   

*Andrea Romano è stato deputato del Pd nella XVII e XVIII legislatura

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