nuovi riferimenti
Il Pd di Elly Schlein tra Giuseppe Conte e Pedro Sánchez
La segretaria del Pd va contro la linea del Pse e annuncia che non voterà il nuovo Patto di stabilità. Per le europee preferisce la linea del leader M5s a quella del premier spagnolo (e Gentiloni)
“Noi non voteremo a favore di questo Patto di stabilità”, ha dichiarato qualche giorno fa Elly Schlein in riferimento alla riforma delle regole fiscali europee. Si tratta di una notizia rilevante. Ma in questo periodo, tra il caso dei dossieraggi e le elezioni in Abruzzo, le questioni economiche non sono al centro dell’attenzione politica.
È passato in silienzo, quasi come un semplice passaggio burocratico, la revisione dei conti da parte dell’Istat che ha segnalato un deficit nel 2023 superiore di 2 punti di pil rispetto al previsto, ovvero un buco di bilancio da 40 miliardi. Ed è passata, quasi inosservata, la decisione di Schlein – comunicata a Porta a Porta – di schierare il Pd contro la riforma più importante di questa legislatura europea, nata su proposta del commissario Paolo Gentiloni, massimo esponente del Pd nelle istituzioni europee, e frutto di un lungo negoziato tra Commissione, stati membri e Parlamento europeo.
L’improvviso cambio di linea verso le stesse posizioni del M5s è stata evidenziata da Giuseppe Conte: “C’è una svolta – ha detto a “Otto e mezzo” – Schlein ha detto che non appoggeranno il patto di stabilità, mutando posizione. Nonostante dietro ci sia Gentiloni, il loro commissario, ci poteva essere un imbarazzo, ma hanno compreso che sarà un disastro”.Nel Pd, invece, nessuno ha commentato la svolta. Qualcuno mugugna, qualche altro non risponde, ma nessuno vuole fare polemica. In tanti non sanno bene chi e come ha deciso la nuova linea né come si tradurrà, se con un voto contrario o con una pilatesca astensione.
Natualmente la critica al nuovo Patto di stabilità segue una logica di politica interna, utile nella campagna elettorale delle europee. La tesi di Schlein è che la proposta di riforma di Gentiloni era ottima, ma poi è stata peggiorata e irrigidita dal Consiglio perché Giorgia Meloni non è stata incisiva nel negoziato e ha subìto un accordo negativo per l’Italia. Sarebbe difficile spiegare agli elettori un voto a favore delle nuove regole fiscali dopo aver criticato la trattativa condotta dal governo italiano, è il ragionamento, soprattutto se c’è chi come il M5s è pienamente schierato per il no.
La prospettiva interna, però, si scontra con quella europea e con la coerenza del messaggio del Pd come partito europeista. A dicembre, in controprogrammazione con Atreju dove FdI celebrava il primo anno di governo Meloni, Schelin organizzò il Forum Europa per elaborare una nuova visione sul futuro dell’Unione, invitando come ospiti d’onore Paolo Gentiloni e la presidente del gruppo socialdemocratico a Strasburgo, la spagnola Iratxe García Pérez.
Ebbene, Gentiloni è favorevole al nuovo Patto (“Equilibrio tra stabilità e crescita, più flessibilità, incentivi a investire, autonomia ai paesi nei piani a medio termine”) d’altronde si tratta del suo lascito politico in Europa. E anche García Pérez si è espressa a favore dell’accordo che è stato il prodotto di una mediazione del governo socialista spagnolo: “Certo non è perfetto, volevamo più flessibilità e investimenti, ma siamo giunti alla fine e il risultato deve ora essere adottato. L’alternativa è il ritorno alle vecchie regole ed all’austerity”, ha dichiarato.
Per giunta, appena una settimana dopo aver ospitato a Roma il congresso del Pse – dove non si è discusso di regole fiscali – il Pd con questa opposizione al Patto di stabilità si metterebbe in minoranza nella famiglia socialista europea, insieme alle delegazioni più piccole (francesi, olandesi, austriaci e belgi) e distante dai grandi partiti socialisti di governo (Germania, Spagna, Portogallo). Alla fine è probabile che la mediazione tra le due spinte, quella interna e quella europea, porterà il Pd sull’astensione. A metà strada tra Giuseppe Conte e Pedro Sánchez. Non è ancora chiaro chi, tra i due, sia il fortissimo punto di riferimento dei progressisti.