l'opinione
Marsilio in Abruzzo mostra la tracotanza e l'insicurezza di chi non sa vincere
Il successo del presidente uscente, meloniano, rivela un rischio e un virus che attraversano la destra italiana
Bisogna saper vincere, se si vuole continuare a vincere. E se la Democrazia cristiana in Italia è durata cinquant’anni è anche perché, come sapeva bene pure Silvio Berlusconi, quando quel partito vinceva sapeva farsi carico delle esigenze degli alleati. E talvolta anche degli avversari. Al contrario lunedì notte, Marco Marsilio, vincitore delle regionali in Abruzzo, lui che non è il presidente del Consiglio ma è cresciuto con il presidente del Consiglio ed è certamente uno dei colonnelli della nuova destra italiana, un prodotto della cosiddetta generazione Atreju, sembrava Vittorio Gassman mentre corre e strombazza sulla sua spider bianca: leader sul campo di battaglia del tiè.
Poco dopo mezzanotte, acquisiti i risultati che lo davano di gran lunga e con certezza vincente, Marsilio esibiva senza freni una “raffinata eleganza”, dono che richiede timidezza, una qualche avarizia di sé, una certa ripugnanza a concedersi, così “sobriamente” annunciava ai microfoni: “E’ stata scritta una pagina di storia”. Niente meno. Poi il primo pensiero dedicato agli avversari. Questo: “Il campo largo non sarà il futuro del paese”. E infine l’irrisione: “Stasera l’unica sarda che festeggia è mia moglie”. Nessun riferimento all’impegno, al programma, all’imparzialità che deriva dall’alta carica, solo frasi e parole boriose e dispregiative rivolte agli sconfitti, autogratificanti e in definitiva di cattivo gusto (“e adesso andiamo a ballare”).
Tutto ciò ci pare pericolosamente esemplificativo di un modello psicologico che dovrebbe far riflettere prima di tutto il ceto politico della destra, che ambisce a confermarsi classe dirigente, e in definitiva dovrebbe essere osservato dagli stessi protagonisti, cioè dagli uomini che circondano la presidente del Consiglio, e anche da Marsilio stesso, con grande attenzione. Il modello offerto sembra infatti quello del barbaro Brenno che, vincitore su Roma, gettò la spada sulla bilancia chiedendo più oro e pronunciando quelle due famose parole, che sono il contrario del saper vincere: “Vae victis”, guai ai vinti. Com’è assai noto l’arroganza non portò fortuna a Brenno, il quale, dopo l’ennesimo saccheggio, in Grecia, fu sconfitto, rimase ferito e si diede la morte. Di lui non resta niente, se non l’esemplare protervia, appunto, la superbia e la supponenza di un uomo che non ha costruito assolutamente nulla.
Ritornando a terra, o meglio al tempo presente, anche Renzi e Salvini, l’uno con le mani in tasca certo di poter chiudere il Senato e l’altro con la tronfiezza estiva dei “pieni poteri”, hanno divampato come una fiamma, e la loro immagine di proterve meteore ha mimato drammaticamente e correttamente quel fuoco. Nell’ultima settimana la destra è passata dalla sudditanza del terrore, avendo introiettato la sconfitta sarda e la propaganda della sinistra (“il vento è cambiato”), all’eccesso di baldanza scomposta e di sicumera per la vittoria in Abruzzo. Il che tradisce l’assenza di un equilibrio psicologico, ma denuncia anche il più pericoloso dei virus: la paura matta di perdere che si accompagna sempre all’incapacità di sapere vincere.