L'editoriale
L'ambiguità strategica o la resa: con Putin non c'è una terza via
Accusano Macron, che oggi ipotizza un impegno diretto nella guerra, di contraddirsi. Ma nei rapporti politici l’ambiguità dell’intelligenza è una componente essenziale. E la minaccia di una controscalata è il minimo di fronte alla protervia del Cremlino
Come accade a chi si indebolisce e si appresta per ragioni istituzionali a lasciare il campo, Emmanuel Macron è diventato impopolare o meno credibile o più vulnerabile di un tempo. Come altri, tra cui Frau Angela Merkel, il presidente francese ha inoltre coltivato a lungo la speranza di un equilibrio negoziale con la Mosca di Putin, e per mesi dopo l’invasione dell’Ucraina ha insistito sulla necessità di mantenere il contatto con il Cremlino e di non umiliare la Russia. Cade dunque nel pregiudizio ostile e nell’accusa di contraddittorietà, in certi ambienti, il suo appello a ragionare e a decidere sull’eventualità di un impegno diretto nella guerra che Putin vuole vincere e non deve vincere, perché il prezzo per l’Europa e il mondo sarebbe troppo alto. Inoltre, nonostante la misura assai più grande dello sforzo di sostegno bellico della Germania all’Ucraina rispetto a quello francese, resta il fatto che la Francia è il potere strategico e militare più forte oggi in Europa, e le parole del suo capo pesano.
Mettendosi al livello delle ospiti di Telepace o Teleresa, quelle che pretendono di fare lezione a Vittorio Emanuele Parsi quando dovrebbero invece studiare, anche Barbara Spinelli si aggiunge al coro dei detrattori di Macron, allineamento facile e opportunista, imputandogli, bum! bum!, interessi lobbistici nell’industria degli armamenti.
Fuori dal folclore pacifista, resta il problema, posto e ribadito a Berlino da Macron, dell’ambiguità strategica del fronte che si batte in occidente contro la guerra dell’autocrate e l’asse di resistenza che sta incendiando il mondo. Ambiguità è parola difficile di significato, perché allude a un atteggiamento morale censurato in nome della linearità. Purtroppo o per fortuna la politica degli stati non è una lezione di moralità, richiede lo strumento dell’intelligenza, appunto strategica, per la persecuzione di scopi molto terragni e realistici. Ci si muove in presenza di forze che dispiegano energia con selvaggia ma lucida precisione, e vogliono la distruzione del nemico, come succede oggi al neoimperialista Putin e ai suoi numerosi alleati nella tentata destabilizzazione blindata dell’Europa e della democrazia. Attraverso l’Ucraina oggi, i Baltici e la Moldavia domani, e chissà che altro dopo la prova di linearità strategica della Crimea del Donbas e della Georgia. E nei rapporti politici l’ambiguità dell’intelligenza è una componente essenziale.
Non è in gioco una nuova girandola “interventista”, nel solco dell’esperienza della Prima guerra mondiale, quando le ideologie pensavano di essere al riparo da esiti catastrofici, sognavano la gloria di una quarta guerra di indipendenza per l’Italia, intendevano colpire gli imperi centrali in un confuso e palpitante e equivoco scambio tra territori irredenti e cambi di alleanze in corsa, con l’idea di costi e sacrifici tutto sommato contenuti, a parte la febbre futurista della guerra come sola igiene del mondo. E sappiamo quale catena di disastri si inanellò dopo lo scoppio della conflagrazione europea. L’ambiguità strategica è un concetto più semplice, al quale non si può opporre, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri, semplicemente il rischio di una guerra mondiale e, oltre la cortina di fumo del bluff, l’incubo nucleare. Magari fosse così. Avremmo risolto tutti i nostri problemi in una schietta logica di resa, nemmeno tanto a discrezione. Se chi invade, chi minaccia, chi presenta come possibile il ricorso all’atomica, chi definisce esistenti o non esistenti paesi indipendenti che intende incorporare o mettere sotto il segno della propria indiscutibile egemonia militare e politica, se chi fa questo non avesse di fronte la possibilità ambigua di una risposta che non si fonda sugli “aiuti” ma sul coinvolgimento e l’intervento diretto, la partita sarebbe chiusa. Punto.
Quel che stupisce è che dall’inizio la questione dell’ambiguità strategica, cioè la minaccia di una controscalata, non sia stata posta da chi, come Biden, ha fatto il possibile, e con provvisori e solidi successi, per costruire un fronte di resistenza all’invasione e alla sua proiezione destabilizzante sull’equilibrio di pace uscito dalla fine della Guerra fredda. Putin ha disseminato di linee rosse la sua offensiva, oggi in gran spolvero di sangue con l’attacco a Odessa e con la ricerca di una continuità territoriale dell’occupazione annessionista in vista della Moldavia, ai confini della Nato, e con il sarcastico odio mostrato dai suoi scherani verso le Repubbliche del Baltico. Dalla coalizione pro Ucraina niente ambiguità, anzi sistematica esclusione di un campo amico-nemico, promesse di aiuti contenute e forniti a rate, infine il blocco del Congresso americano, che esprime l’altro grande rischio per la stabilità europea, la possibilità di un imminente vittoria dell’isolazionismo trumpiano. Di fronte a tutto questo l’ambiguità strategica di Macron, posto che alle parole corrispondano i fatti, è il minimo.