Il risiko per la nuova Ue
I baci Macron-Meloni portano a Draghi, dicono i vertici di FdI
Il segretario di Ecr Antonio Giordano: “Mario è un campione. Ma niente imposizioni esterne, sarà Giorgia a decidere”. E la premier diventa fredda sul bis di Ursula von der Leyen
Di mattina un cordiale doppio bacio sulle guance con Emmanuel Macron e subito dopo pranzo parole di ghiaccio che sembrano frenare con forza l’ipotesi di un’Ursula bis (“ma per fare cosa?”). In mezzo, a mantecare il tutto, c’è stato anche un tête-à-tête fra la premier italiana e il presidente francese: Ucraina, medio oriente, G7, difesa europea e migrazione. Il linguaggio del corpo e i dispacci della nostra diplomazia sembrano certificare una intesa ritrovata con l’Eliseo che potrebbe avere il respiro lungo. E portare, magari, anche a un’iniziativa comune sul nome di Mario Draghi ai vertici della commissione. Scenari da prendere con le molle, certo, ma che dentro FdI sono presi in considerazione. Sentite cosa ha detto al Foglio il deputato meloniano e soprattutto segretario generale di Ecr Antonio Giordano: “Draghi? E’ un campione, lo sappiamo benissimo”.
Il ragionamento del dirigente apicale del partito dei Conservatori europei, presieduto da Meloni, è stato raccolto da questo giornale giovedì a Subiaco, a margine dell’evento di Ecr sulla carta dei valori. Giordano, silente metronomo dei rapporti della premier con i vari partiti conservatori, dice al Foglio: “L’ipotesi che Draghi abbia un ruolo fa parte dei possibili scenari: è un campione e nella vita, eccetto il presidente della Repubblica, ha già fatto tutto ed è entrato nei libri di storia. Dopodiché le possibilità dell’ex banchiere centrale dipendono soprattutto dall’iniziativa di Giorgia. Al contrario, non funzionerebbe l’imposizione di un altro paese”.
Sono parole importanti e inedite, queste di Giordano. E certificano un movimento sotterraneo all’interno di Fratelli d’Italia, un tramestio sempre più frequente intorno al nome di “Super Mario”. Che sia una carta coperta e quindi un piano B o magari un ballon d’essai è tutto ancora da capire e soprattutto da verificare. Di sicuro la “suggestione Draghi”, con il via libera di Meloni, sta iniziando a prendere forza nei vari conciliaboli da quando la candidatura di Ursula von der Leyen ha iniziato a scricchiolare anche all’interno del Ppe, la famiglia da cui proviene l’ex ministra di Merkel. Segnali che Meloni e il suo “ambasciatore” Raffaele Fitto – sempre chino con l’orecchio a terra per ascoltare i movimenti brussellesi – hanno subito colto. Non a caso, per la prima volta ieri Meloni, incalzata da una domanda dei cronisti al termine del Consiglio europeo, ha preso le distanze dal bis dell’attuale presidente della Commissione, una sorta di ombra negli ultimi mesi della premier, all’estero come in Italia.
Meloni dice che “è un dibattito che non l’appassiona”. Perché vuole aspettare di vedere come votano gli italiani, prima di decidere chi debba fare cosa. “Ci sono dei candidati, dopodiché gli europei voteranno, dopo il voto si vedranno quali sono i pesi e si vedrà cosa si può fare, per cui non è un tema interessante. Ursula von der Leyen o chiunque altro: quale è l’Europa che si vuole realizzare?”. Meloni in questo ragionamento, che segna una piccola svolta, sembra bocciare i cinque anni di Ursula: “Io vorrei un’Europa molto meno ideologica, capace di difendere i propri confini, capace di lavorare sulle catene di approvvigionamento: tutte cose che negli ultimi mesi si stanno un po’ raddrizzando, ma nei primi anni non sono andate benissimo”. E qui si ritorna a Macron, al rapporto complicato ma obbligato con Meloni, fatto di strappi plateali, ricuciture all’hotel Amigo di Bruxelles a base di vino rosso e champagne, ma anche di gentili baci, in grado di mandare la cena di traverso ai sovranisti salviniani (prima c’era stato quello paterno di Joe Biden alla Casa Bianca).
Meloni vede il rapporto con Macron con le lenti del “pragmatismo”. E quindi della realpolitik. Non è un mistero che l’inquilino boxeur dell’Eliseo punti su Draghi (come ha fatto capire a chiare lettere anche Matteo Renzi, leader italiano della macroniana Renew). E che butterebbe nella Senna la pratica, forse ormai superata, dello spitzenkandidat. Quella che ha lanciato per i Popolari il nome, seppur con diversi sopraccigli alzati, di von der Leyen. Meloni vorrebbe contare la notte del 9 giugno 80 seggi per i suoi Conservatori europei. Un modo per essere centrale nelle multiple trattative che si apriranno subito dopo. Da parte sua ce la metterà tutta, tanto che a Pescara, il mese prossimo, dovrebbe annunciare la candidatura per FdI come capolista in tutte le circoscrizioni. L’idea Draghi, suggestiva quanto dirompente, segnerebbe una nuova fase di larghe intese fra i partiti. In Italia, potrebbe mandare in tilt la Lega, per esempio. Come farebbe Matteo Salvini a dire di no a colui che Giancarlo Giorgetti chiamò “Cristiano Ronaldo” per valorizzarne le doti di campione? E come si collocherebbe Forza Italia che con convinzione fece parte, salvo affossarlo, del governo guidato dall’ex banchiere? Il discorso potrebbe allargarsi anche al Pd. Tutti ragionamenti prematuri e forse parziali. Anche se un’intesa Italia-Francia-Germania potrebbe portare all’arrivo “del campione”, come viene chiamato Draghi dentro Fratelli d’Italia. Tuttavia per Meloni ogni giorno ha la sua pena, prima del risiko europeo ci sono le grane interne da risolvere: l’ultima porta di nuovo alla ministra Daniela Santanchè: è accusata di truffa nell’inchiesta sulla casa editrice Visibilia e rischia il processo. Le opposizioni ne chiedono le dimissioni.