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Viva gli editori in conflitto! Botta e risposta con il cdr di Rep.
Contro la deontologia farlocca del giornalista il cui unico padrone, bum, è il lettore. Una replica al comitato di redazione di Repubblica, a cui non è piaciuto il nostro editoriale
Sul Foglio, quotidiano dalla forte impostazione per un libero mercato senza regole e che al contempo riceve importanti finanziamenti pubblici diretti, leggiamo un editoriale rigorosamente anonimo con una tesi fantasiosa: la redazione di un giornale con la storia e l’identità di Repubblica dovrebbe limitarsi a tutelare gli interessi del suo editore, abdicando così alla funzione per il quale i giornali esistono (informare i cittadini e l’opinione pubblica). Lo scritto è per una parte fallace sul piano etico e deontologico e per un’altra paradossalmente sbagliata. E’ fallace perché i giornali sono imprese, e l’editore investe del denaro per ricavarne un profitto. Qui dovrebbe esaurirsi il suo ruolo, come sancito anche dall’articolo 21 della Costituzione. Tutto ciò che esula da questo aspetto rappresenterebbe l’insussistenza della cosiddetta “editoria pura”, che invece funziona e genera profitti (pur nelle mille difficoltà di questa fase storica) in larga parte del mondo. In Italia, ahimè, la storia (ben rappresentata dalla ricostruzione giornalistica del Foglio) ci dice che i giornali sono serviti e continuano a servire troppo spesso ad altro, ma il fatto che si sia sbagliato per decenni non vuol dire che bisogna continuare a sbagliare ancora. Inoltre, per assurdo: anche ammesso che l’editorialista anonimo del quotidiano in questione avesse ragione e che un direttore dovrebbe fare il proprio lavoro con la finalità prevalente di tutela degli interessi extra-giornalistici del proprio editore, ci chiediamo: mandare al macero 100 mila copie di un inserto al quotidiano già approvato e mandato in stampa, con i relativi danni economici, ambientali e reputazionali, oltre alle continue sgrammaticature a cui abbiamo cercato in questi anni di porre un freno, aiuta davvero la proprietà? O, piuttosto, gli causa ulteriori problemi di immagine e un’esposizione controversa di cui avrebbe fatto volentieri a meno? Lasciamo alle lettrici e ai lettori la risposta, ringraziandoli nel contempo per la grande solidarietà che questa redazione ha avuto nelle ultime ore dopo la scelta di sfiduciare il direttore.
Il Cdr di Repubblica
La prima cosa che sarebbe in teoria richiesta a un comitato di redazione così agguerrito come quello di Repubblica è distinguere tra un articolo non firmato, rubricato in una serie quotidiana di editoriali appunto “non firmati”, e un articolo “anonimo”. Anonimo allude, testualmente e con una sfumatura di sospetto o di disprezzo, a uno scritto senza accertabile paternità o maternità, al riparo di ogni responsabilità personale. I nostri piccoli editoriali di terza pagina, in un giornale che cominciò quasi trent’anni fa con una maggioranza di articoli non firmati, sono sul modello che a Repubblica dovrebbero conoscere, quello dell’Economist, sono di responsabilità, anche legale, di chi è direttore responsabile del giornale, nome e cognome. Molti grandi giornali europei e americani hanno editoriali non firmati, bastino l’esempio del Times di Londra e del New York Times, dunque anche un piccolo giornale può permettersi la pratica o il vezzo di antico e illustre conio.
Un giornale serio anche se non serioso è firmato per definizione, il nome che accompagna gli articoli è una facoltà, di cui da anni facciamo anche noi largo uso, non un obbligo deontologico. Quanto ai finanziamenti pubblici all’editoria, inutile riproporre una disputa su quelli diretti, motivati a sostegno di imprese che nascono in parte fuori mercato anche se esprimano una cultura sociale di tipo liberale, e su quelli indiretti, che riguardano tutti, Repubblica compresa e il suo editore, ovviamente. Per quanto ci riguarda, non abbiamo la stessa propensione al melodramma degli enti lirici, ma siamo un po’ come loro, dalla Scala in giù, e il nostro bilancio è fatto per un terzo di sbigliettamento, per un terzo di pubblicità e sponsor, per un terzo di contributi pubblici in favore del pluralismo e della conservazione di un bene particolare, che ha qualcosa a che fare con la libertà di stampa e la sua effettiva condizione di esercizio.
Veniamo al dunque. Noi ci siamo limitati a dire con humour e una punta di cattiveria che il comitato di redazione di Repubblica dovrebbe pensarci su due volte, quando fa lo sciopero delle firme, voi direste incongruamente dell’anonimato, perché un direttore, subito sfiduciato, decide di non pubblicare servizi in aperto conflitto con gli interessi dell’editore, che fa molti quattrini con l’industria e la finanza, e ne perde molti con l’editoria italiana, cioè con Repubblica. La tronfia libido scalfariana dell’editore puro, contro tutti gli altri impuri, finì notoriamente con la vendita di Repubblica al finanziere Carlo De Benedetti, allo scopo di assicurare una dote alle figlie del Fondatore. Poi è venuta la famiglia Elkann, gli eredi Agnelli. Repubblica, cambiata tanto, è purtuttavia sempre la stessa con il passare degli anni. Puro o impuro, ha un editore. Resta un giornale, che dovrebbe tenere a un certo grado di pluralismo interno, che non ha mai avuto, e che è garanzia di libertà per chi scrive e chi legge, più che all’insana mania di considerare i facitori del prodotto, prima di tutto i giornalisti, come una razza speciale di dipendenti indipendenti, custodi della linea generale e dei valori generalissimi, fino al punto di prescindere del tutto da chi investe e rischia nel prodotto che essi fanno e per fare il quale percepiscono un giusto salario da dipendenti e detengono le guarentigie della buona coscienza civile e del coraggio personale e di gruppo.
Perfino in un’impresa cooperativa come la nostra piccola impresa, quando l’editore pensò che sarebbe stato meglio appoggiare il governo del contratto Conte-Salvini, invece di sbeffeggiarlo come facemmo nel corso della sua breve e non illustre durata, pubblicammo in prima un suo scritto sotto il titolo ironico “La voce del padrone” (e l’editore si comportò da uomo di mondo). Si può dunque tenere il punto, ma non ha senso battersi contro chi rischia del suo per tenerti a galla e farti eventualmente prosperare. La cosa vale sia nel caso di un editore che produce automobili o altro sia nel caso di un editore che produce solo giornali. Anche nel secondo caso un editore “puro” sta nel gioco della politica, ha interessi e valori da difendere e promuovere, è un potere tra i poteri e non un romantico contropotere, e dalla nascita di una stampa libera o borghese o indipendente si sa che il succo della libertà sta nella possibilità sociale di avere più editori in conflitto liberale tra loro, non dalla deontologia farlocca del giornalista il cui unico padrone, bum, è il lettore.