Vino al governo
Meloni a Vinitaly: una mappa enologica per guidare la premier fra gli stand
La presidente del consiglio dovrebbe stare lontana dai padiglioni dove si spacciano vitigni francesi, e cominciare la visita dagli espositori del Lambrusco. Il tour suggerito
Giorgia Meloni va al Vinitaly che sarebbe meglio si chiamasse Vinitalia ma nonostante la mezza anglofonia bisogna tenerlo da conto, il grande evento veronese, perché serve a vendere la bevanda nazionale. Che non se la sta passando benissimo (consumi in calo costante) per il semplice motivo che non se la sta passando benissimo la nazione. L’idea di nazione, per essere più precisi. “Possiamo difendere l’abitudine di bere vino solo se comprendiamo che fa parte di una cultura”, ha scritto Roger Scruton, filosofo alla Meloni caro. Possiamo difendere il nostro vino solo se difendiamo la nostra cultura. Insieme stanno o insieme cadono. Che poi il figlio dell’uva è anche un segnale di sovranità, forse l’unico alla nostra portata. Com’è noto l’Italia non ha una moneta e non ha e non può avere una politica estera. Sulle coste sbarca chi vuole. I social sono californiani oppure cinesi. Per l’energia dipendiamo nella misura dell’80 per cento. Anche per quanto riguarda il cibo, a causa dei limiti territoriali (poche pianure) e dei limiti ideologici (niente ogm), l’autosufficienza è impossibile. Invece sul vino si può facilmente costruire un sovranismo potatorio. L’Italia è fin dagli albori la terra del vino, Enotria. Tanta storia, tanta produzione (pure troppa), parecchia qualità. Bianchi, rosa, rossi, frizzanti, spumanti, dolci: non c’è tipologia che non si presti all’autarchia. Con la differenza che stavolta i prodotti locali sono migliori di quelli stranieri.
Per manifestare un rinnovato patriottismo Giorgia Meloni tanto per cominciare dovrebbe starsene lontana dai padiglioni dove si spacciano chardonnay, cabernet, merlot, pinot, sauvignon, viognier, vitigni che si dicono internazionali e che in realtà sono francesi. Li promuovesse Macron… Il governo italiano tutto (compreso Lollobrigida) dovrebbe pertanto evitare gli stand della Franciacorta, zona in cui si producono quasi-champagne, e del Bolgherese, zona in cui si producono simil-bordeaux. Sono le teste di ponte della francesità enologica in Italia, i territori perduti di Enotria. Dimenticarseli, gli indirizzi di un sistema disidentitario in cui i modelli sono transalpini e gli italiani vengono inchiodati a un destino di imitatori. Cominciasse la visita, Giorgia Meloni, dagli espositori del Lambrusco, vitigno presente in Val Padana da prima che in Gallia nascesse Asterix.
Dunque la vite delle origini. Curzio Malaparte lo definì “il più generoso, il più libero, il più italiano fra tutti i vini italiani”. Alberto Denti di Pirajno, duca, gastronomo, letterato, prefetto di Tripoli nel 1941, ispiratore di “Heroes” di David Bowie nel 1977, lo disse “prodigioso” e lo abbinò a certe trote mangiate all’Abetone. Guareschi ovviamente lo cita mille volte. E noi siamo più fortunati di loro: oggi il Lambrusco è molto più buono. Continuando a esprimere, nelle versioni migliori, quelle rifermentate in bottiglia, un forte legame con la tradizione a cominciare dai nomi. Penso al Lambrusco del Fondatore, penso al Radice, penso all’Origine, penso all’Ancestrale: calici conservatori.