A sinistra

Nel Pd parte l'X factor per il dopo Elly Schlein. Ma i concorrenti non ci sono

Simone Canettieri

Dopo la retromarcia sul simbolo, tra i dem scatta il toto segretario. Decaro azzoppato, per il caso Bari. Resta sempre la carta Gentiloni, ma gli avversari di Elly sono tutti riluttanti

Prima regola: se serve un pezzo di scenario politico c’è solo una porta a cui bussare. E’ quella del Pd. Partito machiavellico, in perenne macchinazione, feroce all’occorrenza come una iena a dieta da un mese. E’ il giorno dopo la retromarcia clamorosa, mai vista, della segretaria del Pd Elly Schlein sull’opportunità di mettere il suo nome nel simbolo alle europee. Con un miracolo politico la segretaria è riuscita a catalizzare contro di sé maggioranza e opposizione interna, i big e i peones. Un segnale non banale. Che ha fatto ripartire un treno già visto fra i pendolari dem: il piano B. Un nuovo leader, un’altra carta da giocarsi dopo le europee, a seconda di come andrà la lista della segretaria. Lei è sicura di rimanere in sella, ma il solito “X Factor” è già cominciato.


Il problema è il nome: Antonio Decaro (ieri a Bari si sono dimessi altri due assessori di Michele Emiliano), Stefano Bonaccini, Dario Nardella – nomi spendibili – voleranno, salvo sorprese, a Bruxelles-Strasburgo. Vincenzo De Luca, forte e dirompente come dinamite, funzionerebbe al massimo da Roma in giù. I vecchi leader sono stati già tutti “accoppati” da questo rito che ormai va avanti dalla fondazione del Pd. E si tengono alla larga. Il laboratorio del Pd, assicurano in molti, non conosce pause. Sperimenta, calibra gli ingredienti, fa test, poi se non è convinto ci riprova fino a ottenere un risultato desiderato. Schlein ha ammesso ai collaboratori che qualcosa si sarebbe rotto ultimamente con Dario Franceschini e Andrea Orlando, i big già pluridecorati che l’hanno sostenuta in un nome di patto sindacale fra centro e sinistra. Non si fida più di loro, e loro iniziano ad aggrottare la fronte quando la sentono parlare, quando capiscono che la segretaria è autonoma, chiusa in una ridotta di pochissimi consiglieri spesso non illuminatissimi, che “poi mandano a sbattere tutto il partito”. “La vicenda del simbolo per meccanica politica è stata gestita come se fossimo Sinistra, ecologia e libertà ai tempi di Vendola: un piccolo e ambizioso partito con un capo forte. Ma noi siamo il Pd”. Anche Romano Prodi, che si lamenta o forse ci ricama sopra, di non essere ascoltato all’evenienza è pronto a seguire i processi. Poi certo c’è l’area di Base riformista, la minoranza ufficiale, quella che fa capo a Lorenzo Guerini. Inutile chiedere commenti. “Non è che noi lavoriamo a un piano B, abbiamo anche il piano C, ma è una questione di tempi e modi”, ragiona la minoranza interna abbastanza pugnace.

 

Puntuale ritorna il nome di Paolo Gentiloni. Il commissario europeo agli Affari economici è considerato una riserva della Repubblica, con ambizioni quirinalizie ma che all’occorrenza potrebbe essere il candidato premier della coalizione alle prossime elezioni. “Dopo Elly? C’è Elly”, dice Matteo Orfini, che di maggioranze interne ne ha viste. La segretaria è convinta che con il 20 per cento alle europee e con la conferma di Bari e Firenze sarà salva e per nulla sottoposta a quel processo chimico-politico che nel Pd si chiama “logoramento del segretario”. Finora, a parte il successo sardo, le regionali stanno dando responsi non proprio incoraggianti. Tuttavia Schlein è convinta di avere più amici fra gli elettori che nel partito e questo, pensa, sarà comunque la sua salvezza. Farsi un giro in Transatlantico con i parlamentari del Pd è comunque un’esperienza unica. Non esiste altro leader in Italia che raccolga a microfoni spenti così tante critiche. Parole storte che nel Pd si trasformano sempre in scenari futuri, nella ricerca del dopo, del nuovo, nel colpo gobbo a chi comanda e non si accorge che sta perdendo le truppe. Arriva un parlamentare dell’Emilia Romagna: “Ah, poi bisognerà spiegare a Elly che per il dopo Bonaccini in regione c’è Graziano Delrio”. I nomi e i fronti si mischiano. Ecco perché forse la segretaria tutte le mattine, come le gazzelle in Africa, si sveglia e sa che dovrà correre più veloce dei leoni.
 

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  • Simone Canettieri
  • Viterbese, 1982. Al Foglio da settembre 2020 come caposervizio. Otto anni al Messaggero (in cronaca e al politico). Prima ancora in Emilia Romagna come corrispondente (fra nascita del M5s e terremoto), a Firenze come redattore del Nuovo Corriere (alle prese tutte le mattine con cronaca nera e giudiziaria). Ha iniziato a Viterbo a 19 anni con il pattinaggio e il calcio minore, poi a 26 anni ha strappato la prima assunzione. Ha scritto per Oggi, Linkiesta, inserti di viaggi e gastronomia. Ha collaborato con RadioRai, ma anche con emittenti televisive e radiofoniche locali che non  pagavano mai. Premio Agnes 2020 per la carta stampata in Italia. Ha vinto anche il premio Guidarello 2023 per il giornalismo d'autore.