Marco Follini e Pier Ferdinando Casini in una foto Olycom del 2004. I singoli ex democristiani sono figure superstiti, una diaspora triste 

Gli smemorati della Dc

Pierluigi Battista

La storia dello Scudo crociato è stata inghiottita dal silenzio. Il Pd è il partito di tutti quanti gli ex, ma sulla tessera oggi c’è solo Berlinguer. Nemmeno il conforto dell’autoindulgenza per quella che fu l’architrave del potere italiano

Non ci sono più i democristiani. O meglio: non c’è più un frammento di memoria, un ricordo, una nostalgia, l’ombra di un rimpianto per il partito che è stato per quasi cinquant’anni il cuore, il posto di comando, il potere incarnato della politica e della storia dell’Italia repubblicana. Cancellato, rimosso. 

  
Ci sono certo i singoli ex democristiani, figure superstiti, una diaspora triste. Un po’ ricollocati a destra, ma sono costretti a farsi chiamare “moderati”, giammai democristiani. Molti a sinistra, dove gli ex Dc insieme agli ex Pci si sono fusi nel Partito democratico, che però non si sa bene cosa pensino, cosa ricordino, e certamente non ricordano mai e non festeggiano mai, nemmeno quest’anno figurarsi, il 18 aprile, la data del trionfo democratico e occidentale del ‘48 vissuto quasi con imbarazzo retroattivo. Non si sa cosa li infiammi nella loro storia. Cosa vedano. Anzi no, ora si sa cosa vedono: la segretaria Schlein ha deciso adesso, d’imperio, che devono vedere il mondo attraverso gli occhi sorridenti di Enrico Berlinguer, stampati e onorati nella nuova tessera del partito. Chissà come deve aver reagito, attraverso gli occhi dell’antico avversario ora santificato Berlinguer, Pier Ferdinando Casini, una vita nello Scudo crociato e immortalato mille volte accanto ad Arnaldo Forlani, che del Pd è autorevole parlamentare, sia pure non iscritto.

 

“Non ci siamo mai saputi raccontare. Raccontavamo poco noi stessi, convinti che il cuore della politica fosse altrove”, scrive Follini
 

Sparita. La Dc è sparita. La sua stessa memoria si è dissolta, polverizzata. E ora si è ufficialmente, per mezzo di quella tessera, addirittura ripiegata nella subalternità a memorie molto più vigorose. Un po’, anzi parecchio, per colpa loro, come ha scritto Marco Follini in un libro indispensabile per capire quella lunga storia: “Democrazia Cristiana. Il racconto di un partito”, pubblicato da Sellerio. “Non ci siamo mai saputi raccontare, noi democristiani. Raccontavamo poco noi stessi, convinti che il cuore della politica fosse altrove e non ci fosse bisogno di girarci intorno con troppe fantasie”, scrive Follini, non senza una vena di malinconica rassegnazione. Tutto il contrario di quello che facevano gli altri, gli avversari comunisti, che invece spendevano energie e passioni ed entusiasmo (e bravura) nel raccontarsi, e giravano intorno con molte “fantasie”, nell’editoria, nel cinema, nell’impegno, nell’autorappresentazione. Nella “narrazione” di sé e del mondo, come si dice con un termine oramai irrimediabilmente abusato. E perciò, prosegue Follini senza nemmeno il conforto dell’autoindulgenza e del lamento consolatorio, “al calar della sera” di quella interminabile giornata politica durata quasi mezzo secolo e “dopo essere stata così a lungo l’architrave del potere italiano, la Dc si perdeva nella polvere della sua scomparsa”. E poi, “una volta finito, ha inghiottito tutti nel suo silenzio”.

 

Si ricorda con compiacimento il silenzio di Primo Greganti davanti agli inquirenti. E con crudele insistenza la “bavetta” di Forlani

  
Un discorso serio e fondato sull’egemonia culturale dell’Italia repubblicana dovrebbe partire da questo squilibrio costitutivo dello scontro cinquantennale tra Dc e Pci, altro che lamentazioni generiche e lacrimose sulla sinistra e sulla destra. La memoria democristiana sparita è tutta qui. E da qui si potrebbe cercare di capire perché una statua dedicata ad Aldo Moro nella sua Puglia lo abbia visto raffigurato con l’Unità sotto il braccio: allusione? Profezia? Manipolazione? Comunque non risultano vibranti proteste della comunità che un tempo si sarebbe legittimamente definita democristiana. Al cinema c’è Nanni Moretti che nel “Sol dell’avvenire”  favoleggia, nell’atmosfera di un dimenticato “indimenticabile ‘56”, di un Pci che malgrado tutto può rivendicare la gloria del suo passato, inni e bandiere e sfilate, e pure con il faccione di Stalin strappato dai muri della sezione colma di brava e generosa gente. Non risultano film simili che portino rispetto e rimpianto per la storia della Dc. Anzi, c’è “Il divo” di Paolo Sorrentino dove folleggiano gli Sbardella, gli Evangelisti, i Pomicino mentre il capo Giulio Andreotti sembra arrendersi alle accuse infamanti che ne hanno decretato la fine politica (anche se viene messa alla berlina da Sorrentino la scena del bacio con Totò Riina). Nella saga guareschiana di Peppone e Don Camillo, resta Peppone, eclissato Don Camillo. Esce un bellissimo libro sull’epica storia dell’Unità scritto da Roberto Roscani. Una storia del quotidiano Il Popolo invece non c’è, non esiste, e se c’è sicuramente non c’è epica, orgoglio, trasporto emotivo alimentato dalla sensazione inebriante di un destino comune. L’“Internazionale” smuove e commuove. Del “Biancofiore” non è rimasta nemmeno una nota. Si ricorda con nemmeno tanto malcelato compiacimento il silenzio di Primo Greganti, che con testarda militanza restava muto davanti agli inquirenti come supremo tributo alla ragion di Partito. E all’opposto si ricorda con crudele insistenza l’umiliante “bavetta” di Forlani soccombente sotto le sciabolate di Tonino Di Pietro in diretta tv, in un processo che sembrava il rito officiato in un tribunale del popolo.

 
La Dc è sempre stata maggioranza relativa schiacciante per cinquant’anni con percentuali, sommate a quelle degli alleati, mai viste in tutta la storia della Seconda Repubblica, attorno e oltre il 50 per cento. Erano nei gangli della società, nei coltivatori diretti, nell’associazionismo cattolico, nella rete delle parrocchie, nelle leve del potere locale, nei mille rivoli del collateralismo, nell’insediamento territoriale, nelle partecipazioni statali, nella stanza dei bottoni della Rai, nelle correnti che erano altrettanti partiti che non si dividevano mai nonostante le differenze abissali e che oggi, schiacciati come siamo da quello che nella psicoanalisi viene definito il “narcisismo delle piccole differenze”, ne avrebbero reso impossibile la convivenza. E invece eccoli tutti insieme, per cinquant’anni: i manovratori all’ombra della Curia e i dossettiani ideologicamente più a sinistra dello stesso Pci, gli atlantisti e i terzomondisti filoarabi, Gladio e la Cisl, gli industriali tenuti a bada e l’esercito immenso degli impiegati dello stato. Avevano un rapporto di buon vicinato governativo anche con le piccole ma agguerrite minoranze laiche. Un giorno chiesi ad Alberto Ronchey, nel ‘48 dirigente della gioventù repubblicana, come si sentisse vittorioso il 18 aprile con tutte quelle Madonne pellegrine, quei “microfoni di Dio”, quell’odor di sacrestia, quel frusciare di tonache e lui mi rispose citando a sua volta Randolfo Pacciardi, eroe della guerra di Spagna e ferreo combattente anticomunista: “Meglio una Messa al giorno che una messa al muro”.

   

I democristiani erano ovunque tranne che nel cinema, nelle case editrici che contano, nel mondo dell’arte, nelle riviste teoriche

  

Sentenza che in fondo è la matrice della celeberrima esortazione di Indro Montanelli a votare Dc “turandosi il naso” quando nel 1976 il Pci si stava facendo pericolosamente sotto. E comunque i democristiani stavano dappertutto (“moriremo democristiani” fu la fosca, e a tutti gli effetti azzardata, profezia di Luigi Pintor), in tutti gli snodi, anche i più marginali e periferici, della società, della politica e del potere. Ovunque, dappertutto, tranne che nel cinema, nelle case editrici che contano, nel mondo dell’arte, nel teatro, nelle riviste teoriche, nel fronte della “battaglia delle idee” come recitava l’insegna del “Contemporaneo” dove si raccoglieva il meglio dell’intellettualità comunista. Cioè erano assenti dal fronte in prima linea della memoria, del racconto, della rappresentazione. Ed ecco i risultati: spariti. Mal gliene incolse. E pensare che il Pd ha avuto almeno tre leader di matrice democristiana: Dario Franceschini, Enrico Letta e (con qualche licenza anagrafica) Matteo Renzi. Ma mai avrebbero potuto pensare a una tessera del partito con gli occhialini cerchiati d’oro di Alcide De Gasperi.

 
Non si ricordano nemmeno i meriti della Dc, per così dire, socialmente più rilevanti, che pure alla sinistra in genere dovrebbero piacere o si avrebbe piacere a ricordare. Non si ricorda l’imponente piano casa di Amintore Fanfani che contribuì a dare un alloggio e un tetto alla moltitudine di inurbati che affollava le città negli anni della ricostruzione post bellica. Non si ricorda la riforma agraria disegnata da Antonio Segni. Non si ricorda l’ambizione di Fiorentino Sullo (poi travolto da una shitstorm omofobica) per la riforma urbanistica. Né la riforma sanitaria, né la riforma della scuola dell’obbligo. Niente di niente. Oramai il termine “democristiano” allude solo a un grado zero caratteriale, antropologico, alla figura non simpatica di chi sfugge dal nucleo incandescente delle cose controverse, mellifluo, sgusciante. In una trasmissione televisiva, di fronte a una risposta ambigua, morbida, elusiva dell’intervistato, la conduttrice  giovanissima e ignara delle sfumature della Prima Repubblica, visibilmente spazientita se ne uscì con un arcigno: “Ma che risposta democristiana!”. Non sapeva esattamente cosa volesse dire, ma sapeva esattamente cosa intendesse dire. Ancora Follini: “Questo modo di raccontare la Dc sarebbe diventato il tributo velenoso dei suoi avversari. Che la avrebbero inchiodata al ruolo di partito pigliatutto, adattabile e molliccio… Una forza politica senz’anima” capace solo di “barcamenarsi”. Del resto proprio Leonardo Sciascia, che già con “Todo modo” aveva scorticato armato di un’acuta ostilità morale prima ancora che politica l’essenza dell’antropologia democristiana, aveva dipinto “una Democrazia cristiana invertebrata, disponibile, cedevole e al tempo stesso tenace, paziente, prensile; una specie di polipo che sa mollemente abbracciare il dissenso per restituirlo, maciullato, in consenso”. Traspare da queste parole quasi “un risvolto di ammirazione”, nota Follini. Poi Sciascia, che si riferiva soprattutto alla variante morotea della Dc, rivedrà in parte con “L’affaire Moro” molte posizioni sullo statista democristiano rapito e assassinato dalle Brigate rosse, ridotto alla sua inerme creaturalità e al suo cristiano afflato nella “prigione del popolo”, disconosciuto dagli amici cattolici che lo ripudieranno con un corale e spietato “non è lui”, sacrificato sull’altare della “fermezza” così potente e fortificata dalla tenaglia Dc-Pci da riuscire a emendare imperiosamente persino una commovente supplica di Papa Paolo VI (e una devastante vitiligine sull’epidermide dell’amico Francesco Cossiga, al tempo ministro dell’Interno e in futuro picconatore dello Scudo crociato): altro che fantasiose dietrologie. Ma resta l’interdetto antropologico. 

   

Resta la memoria degli altri, che dipinge la Dc come il ventre molle di stragisti, mafiosi, corrotti. Tra Pasolini e Moro ha vinto Pasolini

  
Nel ‘93 la Dc guidata da Mino Martinazzoli cessa di esistere, resa fragile dall’ultimo colpo micidiale inferto alla figura di Giulio Andreotti, e si trasforma in Partito popolare, riallacciandosi anche nel nome all’eredità sturziana. E in quello stesso momento svanisce ogni traccia della propria memoria (e pure, in larga parte, del potere). Resta quella degli altri, che dipinge la Dc come il ventre molle di stragisti, mafiosi, corrotti, “forchettoni”. Oppure sopravvissuti di un’èra geologica sepolta nel tempo che però non devono esagerare nel rivendicare la loro storia. Qualcosa di diverso dalla feroce “damnatio memoriae” che ha seppellito la memoria del riformismo socialista di stampo craxiano: lì c’erano legioni di sommersi, e il drappello dei salvati, come Giuliano Amato, doveva far dimenticare una storia così vicina al decisionismo di Craxi. Qui, con i democristiani, la ferocia non esiste, o comunque viene smussata, somministrata in dosi omeopatiche. Alla “democristiana”, se così si può dire. Ma nei vasi comunicanti delle due storie che sono confluite dopo mille giri nominalistici sotto le insegne di un unico partito, uno dei due vasi è pieno, rigoglioso, fiero di sé, l’altro invece è desolatamente vuoto, smemorato, passivo, rassegnato. Nell’ambito immateriale ma potentissimo della memoria, tra Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro ha vinto Pasolini, l’intellettuale che voleva portare alla sbarra la Dc, contro il leader democristiano che in un celebre discorso in Parlamento sul caso Lockheed disse, non molto tempo prima del rapimento e della morte, che la Dc non si sarebbe fatta processare in piazza. Tutti sanno come è andata a finire. E da Enrico Berlinguer arrivarono all’inizio degli anni Ottanta parole incendiarie sulla “questione morale” incistata nel sistema di potere che aveva la Dc il proprio architrave: la stessa Dc che, anni addietro, il leader comunista proponeva di abbracciare in un grande compromesso storico. Oggi quegli occhi, che fanno quasi tenerezza, si mostrano sulla tessera del Pd, il partito comune degli ex. E i democristiani non esistono più, spariti. Lo Scudo crociato trafitto nella memoria.

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