Nodi linguistici
“Meloni Giorgia detta Giorgia” è faccenda filosofica
Enunciati performativi? La presidente del Consiglio non si perde dietro troppi sofismi intellettuali, ma abbraccia il principio di identità: è in quanto tale
Non mi convince molto l’ipotesi espressa da Marco Belpoliti su Repubblica, secondo cui nel candidarsi Giorgia Meloni “utilizza i cosiddetti enunciati performativi, (…) espressioni che si fondano sulla dichiarazione e che non prevedono alcuna conferma o prova pratica”. In realtà, iscrivendosi alle liste elettorali come “Meloni Giorgia detta Giorgia”, la presidente del Consiglio non sta utilizzando la funzione performativa del linguaggio, che è quella che consente di fare cose con le parole: non quella che consiste nel mero impartire un ordine (se comando di aprire la finestra ma non c’è nessun esecutore materiale, umano o automatico, posso parlare fino a sgolarmi ma la finestra resterà chiusa); né quella deteriore sottintesa da Belpoliti, del bambino menzognero che, per avere il dessert a cena, assicura alla mamma di aver sistemato la cameretta, sperando che nessuno controlli giammai. La funzione performativa del linguaggio è quella che, quando ho indossato la fascia tricolore del comune di Nonantola, ho fatto sì che due miei amici diventassero marito e moglie nel momento preciso in cui li dichiaravo tali. Necessita dunque di un formulario cui attenersi (se, in un momento di confusione, li avessi proclamati dottori della Chiesa, la cerimonia sarebbe stata nulla) e di un contesto cui sottostare: è ovvio che se adesso mi precipitassi in strada a dichiarare marito e moglie i primi due passanti, costoro mi riterrebbero solo un povero imbecille, con o senza fascia tricolore.
Dicendosi “Meloni Giorgia detta Giorgia”, la presidente del Consiglio sembra piuttosto essere ricorsa a una tautologia, non più che se firmassi questo articolo come “Antonio Gurrado detto Gurrado Antonio”. Sarebbe stata performativa se, invece, durante la kermesse di Fratelli d’Italia avesse detto: “In virtù dei poteri conferitimi, qui mi battezzo Giorgia”, diventando Giorgia in quel momento – un po’ come ne “L’armata Brancaleone” il povero ebreo Abacuc viene cacciato a viva forza sotto l’acqua per essere battezzato Mansueto, poiché quel giorno cade la ricorrenza di San Mansueto, e da allora diventa Mansueto nonostante tutto il suo recalcitrare. E’ del resto curioso che, nel giallo “La settima funzione del linguaggio”, Laurent Binet immagini l’esistenza di un Grande Protagora, un retore ultra-sofistico in grado di dimostrare tutto e il contrario di tutto, lui sì capace di fare e disfare le cose con le parole: il lettore si aspetta come minimo il Berlusconi del “sono stato frainteso” (e come massimo il Di Pietro del “mia moglie non è mia moglie”) e invece risulta essere, spoilero, Umberto Eco.
Conoscendola tuttavia per persona oltremodo pragmatica, o che almeno tale si mostra in pubblico, ritengo che Giorgia Meloni abbia voluto con questa mise en abîme del proprio nome tagliare il nodo gordiano del rapporto fra mondo e linguaggio, che da millenni affligge i filosofi. Ha fatto come Erodiade, che nella “Salomè” di Oscar Wilde arriva a zittire tutti i personaggi che prima di lei hanno paragonato la luna a questo e a quest’altro, alla mano di una morta e a una principessina dal velo giallo, a una monetina e a un fiorellino d’argento, asserendo tranchant che “la luna assomiglia alla luna, e basta”. Nella catena potenzialmente infinita di “Giorgia detta Giorgia detta Giorgia”, e così via, ravviso un’eco dell’oscuro aforisma di Gertrude Stein, quello per cui “rosa è una rosa è una rosa è una rosa”. Che io mi pregio di interpretare un po’ a senso come “rosa è una rosa è una rosa è una rosa”: ovvero l’oggetto che nella realtà chiamiamo rosa è tale in quanto nel pensiero lo identifichiamo come uguale a sé stesso; allo stesso modo in cui Giorgia Meloni è proprio lei in quanto Giorgia detta Giorgia. Non bisogna ricorrere a Austin e al linguaggio performativo, dunque, ma tutt’al più all’antichissimo principio di identità: quello che ci fa capire che una cosa – sia che la percepiamo, ne parliamo o ci pensiamo – è tale in quanto identica a sé stessa, A=A. Quello in base a cui il vecchio Parmenide stabilì intuitivamente che solo l’essere è e il non essere non è, assioma da cui Giorgia Meloni sembra aver tratto un corollario in prima persona che, romanamente, potrebbe anche suonare: “Io so’ io”. Il resto lo sapete.