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Referendum insensati

Si fa presto a dire “abolire il Jobs act”. Il Pd al bivio: la Cgil o la logica?

Tommaso Nannicini

I dem rinnegano di aver votato la riforma nel 2016, ma sono pochi quelli che lo fecero davvero. L'errore di quel testo fu tattico: pensata per i giovani, venne recepita come pro imprese. Mentre il modello era la socialdemocrazia svedese

Nella storia del sindacato, i referendum raramente coincidono con i punti più alti di elaborazione ideale e rappresentanza sociale. I quattro quesiti proposti dalla Cgil non fanno eccezione. D’altronde, abolire il precariato per referendum suona un po’ come abolire la povertà per decreto.
Su tre quesiti, è presto detto. Quello sulla responsabilità del committente, rispetto alla sicurezza del lavoro negli appalti, è condivisibile. Quello sul rinserimento delle causali nel tempo determinato favorisce il contenzioso più che la stabilità, e non scalfisce il precariato, che si annida in altre forme contrattuali. Quello che punta a uniformare la disciplina sui licenziamenti, tra le imprese sopra e sotto i 15 dipendenti, riecheggia il referendum proposto da Rifondazione Comunista nel 2003, contro il quale si oppose anche Sergio Cofferati. Perdipiù in un contesto del tutto diverso, in cui – rispetto ad allora – il differenziale nei costi di licenziamento tra imprese sopra e sotto la fatidica soglia si è notevolmente ridotto.

Un referendum per abolire cosa?
Arriviamo così al padre di tutti i quesiti, rispetto alla carica demagogica di “abolire il Jobs act”: il quarto, quello che vuole cancellare il contratto a tutele crescenti. Quel contratto è stato introdotto da uno degli otto decreti legislativi del Jobs act (dlgs 23/2015), ma è stato poi rimaneggiato da un intervento del governo Conte I (che ha aumentato l’indennizzo massimo in caso di licenziamento da 24 a 36 mesi della retribuzione precedente) e da una sentenza della Corte Costituzionale (che ha tolto la formula per cui l’indennizzo cresceva con l’anzianità lavorativa, lasciando discrezionalità al giudice nello sceglierne l’ammontare fino al livello massimo). 


Questo referendum ha poco senso per due motivi. Il primo motivo è “spicciolo”. Il contratto a tutele crescenti del Jobs act, dopo le modifiche di cui sopra, non esiste più. Abolirlo non vorrebbe dire tornare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma all’ultima, vera modifica sostanziale di quella norma: la riforma Monti-Fornero-Bersani, che aveva ridotto l’articolo 18 all’ombra di sé stesso. Il risultato paradossale sarebbe che, per avere lo scalpo di un decreto che è già stato rimaneggiato, si ridurrebbe l’indennizzo massimo da 36 a 24 mensilità. Un affarone.
Il secondo motivo è “generale”. Che cosa vuol dire abolire il Jobs act? Abolire la norma che ha permesso ai rider di Torino di ottenere le tutele del lavoro subordinato? Abolire la norma che aumentava la Naspi ed estendeva la cassa integrazione alle piccole imprese? Reintrodurre i cocopro? Abolire il sistema nazionale delle politiche attive? Più che abolirle, queste cose andrebbero fatte meglio. Il Jobs act è una riforma fatta in un altro mondo (nove anni fa), così ampia e complessa da essere difficilmente etichettabile (otto decreti legislativi): una riforma che oggi risulta in larga parte inattuata e in piccola parte superata.

Le tutele allargate e crescenti
La prima mistificazione è che il Jobs act abbia prodotto precarietà, contratti insicuri. Rispetto alle riforme precedenti, dalla Treu alla Biagi, che s’ispiravano alla cosiddetta “flessibilità al margine” puntando tutto sui contratti a tempo, era la prima volta che si provava a combattere il precariato, abolendo i co.co.pro., contrastando le dimissioni in bianco e stringendo le false partite Iva, con una norma che appunto i rider hanno usato per avere più diritti (dlgs 81/2015). Per carità, avremmo potuto fare di più, ma una cosa è dire che la direzione era giusta anche se non si è fatto abbastanza, altra che si è sbagliato tutto.


La seconda mistificazione è che il Jobs act abbia tagliato il welfare. E’ il contrario. Prima, si proteggevano le grandi aziende più che i lavoratori. L’ipertrofia della cassa integrazione aveva spiazzato il resto. Il Jobs act ha creato la Naspi, investendo 2,5 miliardi di euro e raggiungendo il 97 per cento dei lavoratori dipendenti, una copertura tra le più alte in Europa. Rispetto a prima, il sussidio dura un anno in più e non penalizza i giovani. Gli apprendisti possono ottenere la cassa. Un milione e mezzo di lavoratori delle piccole imprese, che prima ne erano esclusi, hanno integrazioni salariali con i fondi di solidarietà. Ed è stato introdotto il reddito di inclusione, sebbene con risorse insufficienti. Non è un caso se tutte le riforme del welfare che sono arrivate dopo, dal reddito di cittadinanza alle misure post pandemia, hanno solo rafforzato quell’impianto, andando nella stessa direzione. Certo, le grandi imprese non possono più usare la cassa integrazione gratis e all’infinito per scaricare i costi delle loro scelte sulla collettività. Amen.

Gli errori fatti e quelli da evitare
Detto questo, non c’è dubbio che qualcosa sia andato storto. Il Jobs act è una riforma Gorbaciov: amata all’estero e odiata in patria. Perché a un certo punto è diventato prioritario venderla all’estero. Doveva convincere la Merkel a darci la flessibilità dei conti. E gli investitori a scommettere sull’Italia. Poco male se i sindacati s’arrabbiavano. L’articolo 18 l’avevano già cambiato Monti e Bersani, non c’era bisogno di enfatizzare il tema, ma a un certo punto lo si è usato come un simbolo. E il simbolo si è vendicato. Una riforma pensata per outsider e giovani è stata mal recepita soprattutto da loro, venendo percepita solo pro imprese.

E’ stato un errore, che ha impedito di fare meglio altro, dalle politiche del lavoro al welfare.
Ma l’errore è stato tattico, non filosofico. Il modello di quella riforma era la socialdemocrazia svedese, non Blair. E quell’errore l’abbiamo fatto tutti insieme: ministri, ministre, parlamentari, dirigenti di partito. Oggi nel Pd c’è una corsa a dire: “Io ho votato contro il Jobs act”. Ma gli unici che possono dirlo sono Corradino Mineo, Pippo Civati e Luca Pastorino. Tutti gli altri hanno votato a favore o non si sono presentati. Nel 2016, molti compagni hanno trovato il coraggio del dissenso, aperto e organizzato, quando c’era da far perdere il Pd al referendum. Sul Jobs act si sono limitati a darsi malati. Per questo, un partito che dovesse accodarsi supinamente, senza distinguo e senza idee, ai quesiti della Cgil non rinnegherebbe quella stagione, ma sé stesso.

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