La presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il generale Haftar

Affari in cirenaica

In Libia Meloni parla con tutti, Dabaiba e Haftar. Perché se non lo facciamo noi lo fanno i russi

Luca Gambardella

La strategia della premier punta a riaprire le rotte aeree e ricostruire Derna. Ma mentre Palazzo Chigi spinge per un cambio di marcia con Haftar, alla Farnesina l’approccio è più moderato

La visita a sorpresa della premier Giorgia Meloni a Tripoli e Bengasi di ieri rivela che il mantra del Piano Mattei è uno: si parla con tutti. Che si tratti della giunta golpista e filorussa in Niger, o dei dittatori mascherati fra Tunisi e il Cairo, chiunque oggi è un interlocutore di Roma. Con questa nuova filosofia, il drappello di ministri al seguito della premier – Andrea Abodi, Anna Maria Bernini e Orazio Schillaci – ha siglato martedì una serie di accordi di cooperazione con il governo di Tripoli su ricerca, salute e sport. Subito dopo, la premier ha proseguito da sola il suo viaggio a est, per stringere la mano al generale Khalifa Haftar. Pazienza se l’interlocutore in questione è l’uomo di Vladimir Putin nel Nord Africa. 


Il leader della Cirenaica armata dai russi e dove la cartamoneta in circolazione è stampata direttamente a Mosca, ieri ha accolto Meloni accettando quasi di buon grado di farsi redarguire: basta amicizia con la Russia, ha chiesto la presidente del Consiglio. Un atto dovuto, ma è difficile pensare che gli Africa Corps del Cremlino, la nuova versione della Wagner, lascino il paese a stretto giro. Ed è qui che sta la svolta di Meloni, che a differenza di altri leader occidentali è arrivata di persona fino a Bengasi per tentare di convincere Haftar a mollare la presa dei russi e, già che c’era, a offrire l’aiuto italiano per la ricostruzione di Derna, la città distrutta dall’inondazione dello scorso anno e che oggi è uno scrigno a cielo aperto per chi vuole investire. “I russi non se ne andranno, questo si sa. La stessa base navale di Tobruk, che Haftar ha promesso al Cremlino, è già di fatto il punto di scarico delle armi degli Africa Corps. Non si tratta di normalizzare, si tratta di fare un bagno di realtà. Se non parliamo noi con il generale, lo farà qualcun altro”, confessa al Foglio un funzionario diplomatico. E forse anche di questo chiederà conto il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, oggi in visita da Meloni a Roma. I presupposti della visita di Meloni sono stati posti alla fine del mese scorso, quando l’ambasciatore italiano a Tripoli, Gianluca Alberini, si è recato a Bengasi e non ha mancato di farsi ritrarre mentre stringeva la mano a Haftar.

 

 La premier Meloni incontra il generale Haftar - foto LaPresse
      

   
Poi è stata la volta dell’ambasciatore dell’Ue in Libia, Nicola Orlando. Entrambi hanno ribadito l’urgenza di interrompere le relazioni con i russi, che però sono vitali per Haftar, perché gli garantiscono il sostegno militare necessario a fronteggiare le milizie dell’ovest e quelle che a sud rispondo a Saif al Islam Gheddafi, il figlio del dittatore che non è mai scomparso del tutto dalla scena.

A Palazzo Chigi scommettono sulla bontà del dialogo con Haftar, sul suo coinvolgimento nel dialogo di conciliazione nazionale. Ne è convinto in particolare Alfredo Mantovano, sottosegretario delegato ai Servizi di informazione e sicurezza, spiega al Foglio una fonte interessata alle trattative con l’est della Libia. Ma mentre la presidenza del Consiglio spinge per un cambio di marcia con Haftar, alla Farnesina invece l’approccio è più moderato. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani nutre ancora riserve sui legami del generale con la Russia perché sarebbe facile incorrere in contraddizioni pericolose, condannando l’aggressione russa in Ucraina e allo stesso tempo stringendo affari con chi invece è armato proprio da Putin. Per questo il ministero degli Esteri finora ha tentato di resistere agli entusiasmi di Palazzo Chigi ed è rimasto più cauto nel dare la sua benedizione per fare affari con Haftar nella ricostruzione di Derna. “La Farnesina ha avviato una riflessione che potrebbe portare a maggiore apertura”, spiegano dal ministero degli Esteri, che intanto però sconsiglia alle aziende di recarsi nell’est per investire, invocando motivi di sicurezza.


Diversità di vedute che non hanno intralciato la politica di Meloni in Libia che ora ha priorità che vanno oltre il dossier dei migranti. La prima è la riapertura delle rotte aeree. Nel luglio del 2023 aveva fatto clamore il primo viaggio di Dabaiba da Roma a Tripoli a bordo di un aereo Ita. Poi più nulla, perché vige ancora il divieto di scalo e sorvolo di compagnie europee nel paese e poi perché gli aerei di Ita sono in affitto e i costi assicurativi per i voli in Libia sarebbero troppo elevati. A dicembre il presidente dell’Enac, Pierluigi Di Palma, ha siglato un accordo con i libici per riaprire le rotte commerciali. I primi voli dall’Italia sono targati MedSky, una compagnia aerea privata libica di proprietà di Mohamed Taher Issa. Lo chiamano “il re delle lettere di credito” ed è un influente imprenditore di Misurata che vanta legami stretti con le milizie della città. Ora punta sull’ampliamento dello scalo di Misurata, che ha un aeroporto all’avanguardia. “Sicuramente più avanzato di quelli di Tripoli e Bengasi”, conferma  Di Palma al Foglio. “I nostri tecnici hanno visitato gli aeroporti di Tripoli, Misurata e Bengasi per verificare se ci fossero le condizioni per dare l’autorizzazione all’apertura dei voli e i responsi sono positivi”. Un lavoro di squadra, dice il presidente di Enac: “Credo che Meloni sia molto contenta di ciò che abbiamo raggiunto, ci teneva molto”. Proprio a Misurata, la città di Dabaiba e Issa, è interessata Poste italiane, che vuole riaprire la rotta dei cargo. Alla finestra ci sono poi Ita e Neos. Atterrare a Bengasi permetterebbe invece di spalancare una via di comunicazione per le aziende che guardano a Derna e alla sua ricostruzione. “Sono già tutti lì. Turchi, emiratini, anche diversi europei. Tutti con valige cariche di soldi. Manchiamo solo noi”, spiega al Foglio Nicola Colicchi, presidente della Camera di commercio congiunta italo-libica. “Haftar usa la ricostruzione di Derna per legittimarsi”, spiega un funzionario diplomatico. “Vuole dimostrare che lì sono più efficienti e meno corrotti di Tripoli”. Ma è difficile passare un po’ di trucco e trasformarsi di colpo in leader moderato e trasparente. Il Fondo per la ricostruzione di Derna è diretto da Belgassem Haftar, uno dei figli del generale, che ad aprile ha incontrato il nostro ambasciatore Alberini. L’altra grande istituzione che gestisce appalti  è la Libyan Investment Authority, anche quella  nelle mani della famiglia Haftar, che si ritrova a smistare tutto il denaro che arriva nell’est.


Secondo fonti diplomatiche “è con il denaro della Banca centrale di Kabir che Haftar vuole stringere il cappio attorno al collo di Dabaiba. Il suo slogan di governo era ‘ritorno alla vita’, ma l’est sta dimostrando di essere molto più avanti nello sviluppo di tanti settori”. Il premier libico ha ancora sponsor negli Emirati e in Turchia. Ankara la sua base navale militare de facto, nell’ovest, ce l’ha già a Khoms, m a non basta, perché Erdogan è interessato a mettere le mani anche sugli aeroporti, dove gli italiani sono in vantaggio. L’appalto per la ricostruzione dell’Aeroporto internazionale di Tripoli se l’è preso un anno fa il consorzio italiano Aeneas, presieduto da Elio Franci. “Abbiamo fatto miracoli, i lavori procedono e la parte fondativa è completata”, spiega. “Entro l’anno prevediamo di chiudere il cantiere. Il via libera per l’operatività potrebbe arrivare nel 2025”. 

Intanto però, solo qualche settimana fa, il ministero dei Trasporti di Tripoli ha siglato un memorandum con una società turca, la Turkish Terminal Yapi, e una britannica, l’ARG International, per lavori analoghi a quelli che stanno già svolgendo gli italiani. “Sono azioni di disturbo. Ne abbiamo viste tante altre da parte di turchi e francesi. Noi abbiamo i nostri contratti firmati e le lettere di credito. Ci è stato chiesto anche di svolgere lavori in altri aeroporti del paese e per strutture in campi petroliferi”. Talvolta però è lo stesso governo italiano a ostacolare gli investimenti delle nostre imprese. Todini Costruzioni si è aggiudicata di recente l’appalto per l’ultimo tratto dell’Autostrada della Pace, un progetto interminabile, ma il Documento di economia e finanza ha tagliato gli stanziamenti per il 2024 di 50 milioni di euro per i rallentamenti causati dalla sicurezza precaria nella regione. Non poco, se si pensa che nel 2023, sempre secondo il Def, su oltre 61 milioni di euro stanziati per il progetto, lo stato italiano ne ha versato appena uno. Perché ricostruire la Libia non è impresa semplice. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.