Fare un passo in più
L'Europa serve, ma l'Italia può dire la sua, anziché limitarsi a fare i compiti a casa
Macbeth e il nuovo Patto di stabilità. Per raggiungere la sostenibilità dei conti pubblici servono percorsi di aggiustamento seri, senza eccedere con il rigore
Era tranquillo, Macbeth. Sino a quando la foresta di Birnam non avesse marciato su Dunsinane non avrebbe dovuto temere nulla. Così avevano vaticinato le streghe. Lieto augurio, pensava: come potrebbe muoversi una foresta?
Con l’Europa è successa più o meno la stessa cosa: abbiamo vissuto nella certezza che nulla sarebbe cambiato, pensando che dire Europa significasse, in fin dei conti, evocare solo una sterile sommatoria di pezzi di sovranità, una progressiva cessione di prerogative economiche e regolatorie, funzionale a interessi altri e in fin dei conti opachi e indistinti. Così siamo rimasti prigionieri di una narrativa stanca e usurata, quella dell’Italia che deve farei i compiti a casa, vigilata speciale in un contesto tutto sommato estraneo. E’ la sin troppo nota dinamica della matita rossa e blu, alimentata da europeisti di maniera al solo fine di dimostrare quanto il governo di turno fosse inadeguato o poco attento a dinamiche eteroimposte. Esattamente come Macbeth, prigionieri più o meno felici di un’idea sbagliata, di un vaticinio mal interpretato.
Ma i tempi cambiano, e ora possiamo scegliere se, novelli Giovanni Drogo, restare arroccati a scrutare l’orizzonte oppure farci attori di questo spettacolo. Magari consapevoli che, quale che sia l’esito delle prossime consultazioni elettorali, una priorità appare ineludibile: l’azione propulsiva e di coordinamento della nuova governance europea dovrà camminare di pari passo con la messa a terra di politiche industriali realmente unitarie, in assenza delle quali rischieremmo, tutti, di assomigliare a quelle falene che in tante serate estive finiscono per muoversi impazzite intorno a una luce, per poi finire bruciate.
L’obiettivo, per uscire di metafora, è individuare priorità comuni valorizzando al meglio le esperienze nazionali. L’obiettivo è guardare alle politiche fiscali e di bilancio senza il complesso del comprimario, consapevoli del nostro ruolo e saldi nelle nostre idee. Evitando posture polarizzanti e, come tali, distorsive della realtà. Così, il dibattito sul nuovo Patto di stabilità e crescita rischia di essere contaminato da pregiudizi che, se ulteriormente alimentati, concorreranno solamente a rafforzare un posizionamento dannoso per il nostro paese. Come ho già avuto modo di sottolineare su questo giornale lo scorso dicembre, in occasione del via libera dell’Ecofin, le nuove regole fiscali sono figlie di un compromesso. Non per questo, però, al ribasso. Al contrario il ripristino dell’impianto vigente prima dell’arrivo del Covid avrebbe comportato impegni decisamente più severi sul fronte della correzione dei conti pubblici.
Appare alquanto fuorviante, oggi, lanciarsi in puntuali esercizi contabili sull’impatto che le nuove regole avranno sulle finanze pubbliche nazionali. E' un esercizio al buio, pertanto errato, che prescinde dalla traiettoria di riferimento della spesa primaria, il benchmark che sarà indicato a giugno dalla Commissione europea per garantire una riduzione plausibile del rapporto debito/pil nel medio periodo. Così come occorrerà tenere conto della flessibilità virtuosa che è garantita dalle clausole inserite nel nuovo Patto, a iniziare da quella relativa agli investimenti del Pnrr.
E’ sulla declinazione delle nuove regole che si gioca la vera scommessa. Così come è sbagliato collocare l’Italia dietro la lavagna, è altrettanto inopportuno ragionare nell’ottica dello sconto piuttosto che dell’aiuto slegato dagli impegni. La traduzione delle regole del Patto all’interno del Piano fiscale-strutturale di medio termine (il nuovo strumento di programmazione nazionale) può e deve contare su un dialogo, costante e costruttivo, con l’Europa. Un dialogo che deve maturare su una consapevolezza condivisa: per raggiungere la sostenibilità delle finanze pubbliche servono percorsi di aggiustamento seri e credibili, ma allo stesso tempo sostenibili. Sarebbe un grave errore eccedere con il rigore, mettendo a repentaglio il percorso della crescita e peggiorando la dinamica del debito nel medio e lungo periodo. Non per questo gli impegni devono venir meno, tutt’altro: c’è spazio per una riduzione graduale e realistica del debito.
Ma all’interno del cambio di prospettiva che il nuovo Patto offre è necessario fare un passo in più. Non basta instradare la questione della flessibilità su un percorso di serietà e responsabilità. L’attuazione delle nuove regole fiscali deve guardare, con più forza e convinzione rispetto al passato, alla spinta che può arrivare dagli investimenti pubblici e privati che vanno (soprattutto quelli privati) sostenuti e incentivati, non soffocati. E’ qui che l’Italia può e deve farsi promotrice di un percorso virtuoso. Le potenzialità del tessuto produttivo del paese, a iniziare da quelle delle piccole e medie imprese, vanno sostenute con nuovi strumenti normativi, efficaci e flessibili, per liberare nuove energie e dare più forza a quelle esistenti. Per respingere l’immagine di un paese attendista o, peggio, eterodiretto. Per ribaltare la logica dei “compiti da fare a casa”, sotto una dettatura che nel recente passato si è rivelata decisamente controproducente, se non deleteria, per l’Italia e per l’intera Europa. Per affermare, invece, una logica dell’impegno che parta dalla valorizzazione del Dna italiano, aperti alla contaminazione ma non all’abiura di radici e valori che costituiscono ineliminabili pilastri del nostro essere italiani.
Ecco, possiamo attendere gli eventi, o possiamo farci attori consapevoli. Consapevoli e, aggiungo, senzienti: liberi di criticare questa Europa senza per ciò dirci estranei. Proprietari di una casa comune e non inquilini sgraditi. Convinti oppositori di cavallette e vino sintetico, scettici rispetto a transizioni forzate, italiani prima, ma non per questo meno orgogliosamente europei. Consapevoli, insomma, che la selva di Birnam si muove, e che sta a noi decidere da che parte stare.
Federico Freni, sottosegretario di stato per l’Economia e le Finanze