La natalità censurata. Il discorso che la ministra Roccella non ha potuto fare
La relazione inversa fra nascite e sviluppo economico. E poi i tabù da sfatare, i dati dell’emergenza, le misure prese e quelle che mancano per tornare a fare figli
La ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, avrebbe dovuto intervenire agli Stati generali della natalità, un evento organizzato a Roma. La contestazione di alcuni studenti le ha impedito di farlo. Pubblichiamo il testo del discorso che la ministra avrebbe dovuto rivolgere.
Quest’anno ricorre il trentennale della Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo. Trent’anni non sono molti, eppure sembra passato un secolo, perché oggi il quadro è drasticamente cambiato, si è praticamente capovolto. Le previsioni fatte all’epoca, che hanno orientato le politiche nazionali e internazionali, si sono rivelate completamente sbagliate.
Alla Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo che si è svolta al Cairo nel 1994, 179 paesi, partendo dal principio che sviluppo e popolazione sono strettamente collegati, hanno sostanzialmente ritenuto che frenare la crescita demografica portasse alla crescita economica: insomma, meno figli voleva dire più ricchezza e sviluppo. Oggi invece è ormai un fatto assodato che il nesso tra natalità e sviluppo c’è, ma è all’opposto di quello che si è detto al Cairo. La modernizzazione, lo sviluppo economico, sociale e tecnologico, sono accompagnati in genere da un continuo calo delle nascite, e questo calo alla fine crea nuovi rischi per il benessere individuale e collettivo. Insomma il tempo ci ha insegnato che non è intervenendo per abbassare le nascite che produciamo sviluppo, ma producendo sviluppo le nascite tendono spontaneamente a calare. I dati parlano chiaro: pochissimi sono ormai i paesi nel mondo sviluppato in cui la natalità viaggia intorno al cosiddetto tasso di sostituzione, quei due figli per donna che garantiscono l’equilibrio tra nascite e morti. Per molto tempo, almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso, siamo vissuti nell’idea che la popolazione mondiale sarebbe aumentata a dismisura, e che questo avrebbe prodotto uno squilibrio drammatico tra i limiti delle risorse disponibili e una crescita demografica che si immaginava senza limiti. Basterebbe ricordare le previsioni del prestigioso Club di Roma, un gruppo di scienziati e studiosi di grande rilievo internazionale. Si parlava di “population bomb”, titolo del famoso libro di Paul Ehrlich, considerando quindi l’incremento demografico come un’arma letale, una minaccia per la sopravvivenza stessa dell’umanità, che avrebbe impedito il progresso e lo sviluppo, producendo fame, miseria, conflitti. Abbiamo attraversato decenni in cui si sono intensificate le politiche per il controllo della natalità, finanziate spesso da organismi internazionali, e i piani per arrestarne la crescita, in particolare in quei paesi dove sembrava irrefrenabile, come molte nazioni asiatiche.
Ricordiamo che il segretario dell’Onu, Pérez de Cuellar, premiò negli anni 80 la politica del figlio unico della Cina, una politica attuata in modo autoritario e oppressivo nei confronti della libertà delle famiglie e delle donne in particolare. Oggi però la Cina è alle prese con il problema opposto, con tassi di natalità troppo bassi, inferiori al tasso di sostituzione, e persino l’India, che era il più lampante esempio di nazione sovrappopolata, è attualmente ferma a due figli per donna o poco più. L’esempio più evidente di quello che stiamo dicendo è la Corea del sud, che ha avuto uno sviluppo galoppante, e in parallelo ha effettuato una altrettanto galoppante rincorsa verso il crollo demografico.
Anche le prospettive del continente africano, in cui oggi la popolazione è in aumento e il tasso di natalità è ancora mediamente alto, si avviano a un veloce assestamento al ribasso.
Le cause di questo fenomeno sono tante, e gli studiosi hanno cominciato a esplorarle e approfondirle a livello globale, tanto che alcune analisi sono finite sulle pagine della grande stampa internazionale.
Cito solo qualche titolo. New York Times, 9 novembre 2023. Dean Spears, economista al Population Research Center della University of Texas, afferma: “Sono sempre meno i paesi con elevati tassi di natalità, e in nessuno dei paesi in cui i tassi di nascita sono scesi sotto il valore di 2, questo valore poi è risalito. I tassi di nascita stanno diminuendo anche nell’Africa sub-sahariana. Man mano che aumentano gli standard di vita, la natalità cala”. Lancet, rivista scientifica che non ha bisogno di presentazione, ha pubblicato quest’anno uno studio sulla fertilità globale in 204 paesi e territori, dal 1950 al 2021, con previsioni fino al 2100: un’analisi demografica con proiezioni sui futuri tassi di fertilità che continuano a scendere in tutto il mondo e che, cito, “resterà bassa anche nell’ambito di un’attuazione efficace di politiche pro natalità”. Le previsioni indicano che nel 2100 i tassi di fertilità saranno sotto il livello di sostituzione nel 95 per cento dei paesi. Niall Ferguson, ha scritto di calo demografico su Bloomberg, nel marzo 2024. Ferguson, che insegna storia moderna a Harvard, citando dati di agenzie internazionali, commenta la denatalità mondiale con un saggio significativamente titolato “Il crash della popolazione mondiale non è più fantascienza”.
Per tornare in Italia, il 30 aprile scorso sul Corriere della Sera è uscito un articolo di Federico Rampini, giornalista estremamente informato sulla situazione internazionale, con il titolo: “Dall’Europa alla Cina la denatalità non dipende dai soldi”. Nel pezzo, Rampini riporta il commento di John Burn-Murdoch del Financial Times, che riassume gli esiti di diversi studi in materia demografica, specie dal mondo anglosassone, concludendo che ormai è scontato come l’aspetto economico sia irrilevante per la decisione di avere figli. Il titolo dell’articolo inglese era: “Perché le politiche a favore della famiglia non aumentano i tassi di natalità. Gli incentivi finanziari diretti sono sconfitti da tendenze sociali molto più forti”.
Un panorama scoraggiante. Che fare, allora? Dobbiamo rassegnarci a un mondo sempre meno popolato, e a tutte le ricadute che questo ha su di noi, sul nostro territorio e sulla nostra vita? Naturalmente no. Se non pensassi questo, se non credessi che si può cambiare rotta, non avrei accettato di assumermi l’onore e l’onere di guidare un ministero a cui, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, sono state assegnate le deleghe per la natalità. Perché, bisogna dirlo, creare queste deleghe è stato un atto di coraggio politico. Per molto tempo in Italia la natalità è stata una parola tabù, ne parlavano solo i cattolici, gli esperti e pochi altri. Chi spiegava che il calo delle nascite comportava rischi materiali e immateriali per la nostra società veniva accusato di voler replicare le politiche mussoliniane, di voler relegare le donne a casa, di voler distruggere l’ambiente, e così via. Ancora oggi non è facile promuovere la natalità senza incorrere in accuse di ogni tipo.
Il nostro governo però ha messo la questione al centro della sua azione, e lo ha fatto proprio perché dietro c’è una visione precisa: lo sviluppo economico, tecnologico, sociale, democratico, insomma la crescita, è un obiettivo irrinunciabile, ma dobbiamo trovare i modi per conciliarlo con una nuova primavera demografica, altrimenti i rischi sono enormi. Non voglio qui dipingere uno scenario cupo, ma vorrei accennare almeno a un paio di punti, gli stessi su cui mi sono soffermata nella relazione di apertura alla Conferenza europea sulla demografia che abbiamo organizzato poche settimane fa.
Quando si parla dei rischi connessi alle culle vuote ci si riferisce di solito all’equilibrio pensionistico e all’aumento della spesa sanitaria, e più raramente di due argomenti che in realtà sono già nell’agenda europea: uno è l’ambiente, l’altro la solitudine.
Oggi è molto in auge la visione dell’uomo come distruttore dell’ambiente, ma la verità è diversa. La radice di ecologia è il termine greco oikos, che vuol dire casa. L’ambiente è la casa dell’uomo, ed è la cura da parte dell’uomo che lo vive e lo abita che può preservare i territori dal degrado e dall’abbandono.
Il nostro ambiente è costituito infatti di natura, di tradizione, di cultura. Avrete visto forse il film “Un mondo a parte”. Ecco, quei paesi del’Appennino, quelle aree interne descritte nel film, sono custodi di biodiversità, di identità nazionale e di un immenso patrimonio diffuso di carattere storico-culturale.
Perdere popolazione significa abbandonare all’incuria porzioni di territorio oggi alimentate dalle attività e dalla presenza umana. Significa condannare i borghi alla decadenza urbanistica e le costruzioni alla rovina.
Anche questa è ecologia, cioè conservazione di un ambiente prezioso. Il sindaco di un piccolo paese della Puglia, Biccari, che ha parlato alla conferenza, ha detto, citando il titolo del film: “Noi non vogliamo essere un mondo a parte, vogliamo essere parte del mondo”. Mi sembra una sintesi perfetta.
L’ altro tema fondamentale è la solitudine. Uno studio apparso recentemente in una prestigiosa rivista scientifica ha stimato il calo del numero di parenti nelle diverse nazioni del mondo, con una proiezione fino al 2100. In media, nel mondo, una donna di 65 anni nel 1950 aveva 41 parenti viventi; nel 2095 ne avrà una media di 25, con un calo di quasi il 40 per cento. La tendenza riguarda indistintamente tutti i paesi del mondo: per esempio nello Zimbabwe una donna di 65 anni aveva 50 anni fa più di 80 parenti, ma già oggi ne ha la metà. Questo vuol dire meno zii, cugini, nipoti. Cioè meno persone della comunità naturale di prossimità, all’interno della quale ognuno di noi è nato e ha vissuto, e che è il primo ambito in cui impariamo cosa è la vita; il primo ambito di vicinanza, di condivisione e di solidarietà in caso di difficoltà personali. E’ un cambiamento che incide sul singolo, sulla formazione individuale: le persone vissute in una rete famigliare ridotta, crescono senza aver mai sperimentato cosa significa vivere in una rete fitta di rapporti parentali, di prossimità. Insomma, nelle società colpite dall’inverno demografico non si diventa soli a una certa età, ma si cresce nell’esperienza della solitudine.
In alcuni paesi, come in Gran Bretagna o in Giappone, è stato istituito addirittura un ministero dedicato alla solitudine, e molti sono i provvedimenti che i governi stanno prendendo, per esempio quello tedesco, per far fronte a questo problema. Ma sono sempre provvedimenti che non possono sostituire l’antidoto naturale alla solitudine, che è appunto la rete parentale, allargata alla comunità.
Il nostro governo non ha soltanto voluto e saputo imporre all’attenzione il tema delle culle vuote, rendendolo centrale nel dibattito pubblico. Ha agito molto concretamente, e lo ha fatto fin da subito, già nella prima legge finanziaria, a poche settimane dal nostro insediamento. La via italiana, chiamiamola così, alle politiche nataliste, si fonda su tre cardini. Il primo è il sostegno diretto alle famiglie. L’aumento della spesa per l’Assegno unico è passato da 16,5 miliardi di euro nel 2022 a più di 19 miliardi per il 2024, ed è riassumibile nell’impegno verso la fascia da 0 a 3 anni, con l’incremento del 50 per cento per i nuovi nati, e per le famiglie numerose.
L’altro cardine è composto da due punti, il lavoro femminile e la conciliazione famiglia-lavoro. Sul primo punto abbiamo già ottenuto, in questo anno e mezzo di governo, un risultato di cui siamo fieri, con un aumento di 260.000 posti di lavoro in più per le donne, e con il più alto tasso di occupazione femminile mai raggiunto dal nostro paese fino a oggi. Lo abbiamo fatto anche grazie alla decontribuzione per le donne con due o più figli e con facilitazioni per l’assunzione di donne e giovani. Inoltre il governo sta coinvolgendo nella sfida della conciliazione le imprese, attraverso la certificazione di parità di genere (che è un obiettivo Pnrr) e il nuovo patto di responsabilità per la maternità e le pari opportunità nelle imprese. A questo aggiungiamo i congedi parentali, che, per due mensilità sono passati dal 30 all’80 per cento di copertura.
L’ultimo cardine sono i servizi socio-educativi per la fascia di età 0-3. L’attuale legge finanziaria ha previsto un rimborso praticamente completo per le famiglie con due o più figli a copertura delle rette per gli asili nido, inoltre abbiamo appena rifinanziato i centri estivi, mentre il ministro dell’Istruzione ha promosso l’apertura delle scuole anche durante i mesi di vacanza.
Ma il problema della denatalità, come abbiamo detto all’inizio, oltrepassa i confini nazionali, riguarda tutto il mondo sviluppato, e sempre più rapidamente investirà anche paesi che sembravano immuni dal problema, e che venivano considerati riserve inesauribili di nuovi nati.
Insomma l’inverno demografico sta raffreddando il mondo intero: è una questione globale che penso vada affrontata a livello globale, a cominciare dal nostro continente, l’Europa. L’Italia intende portare nella nuova Commissione e nel nuovo Parlamento il tema della demografia come una priorità del prossimo quinquennio. E’ per questo che abbiamo voluto organizzare la Conferenza europea a cui ho accennato all’inizio, a cui ha partecipato la commissaria europea all’uguaglianza, Helena Dalli, proprio per la luce che abbiamo voluto accendere sulle questioni che riguardano il lavoro femminile e la conciliazione vita-lavoro, e la vicepresidente della Commissione, che è anche commissaria per la Demografia, Dubravka Suica. Come già fatto sulla transizione green e digitale, anche l’investimento nella transizione demografica deve diventare centrale per il governo europeo, non solo perché, come ho detto, l’intero continente è a rischio spopolamento, ma perché oggi il peso delle decisioni che si prendono in Europa è sempre più influente e importante. Non è pensabile invertire la tendenza alla denatalità senza un forte coinvolgimento dell’Unione europea, senza che, per esempio, gli investimenti per le politiche demografiche siano considerati, appunto, investimenti, e non solo capitoli di spesa. L’Europa è definita il “vecchio continente”, ma con questo termine si allude alla grande storia che abbiamo alle spalle, al nostro patrimonio di tradizioni e di passato. Non vogliamo che diventi invece una definizione anagrafica.
Abbiamo bisogno quindi di una convergenza di tutti i livelli di governo, dagli enti locali, le regioni e i comuni, che possono fare moltissimo, fino al governo nazionale, e poi a quello europeo, e anche oltre. Oggi abbiamo un ministero che ha le deleghe alla natalità e una commissaria europea alla demografia. Abbiamo tutti gli strumenti per avviare un grande lavoro comune e cambiare le cose.