"Le parole per dirlo", libro e vita
Storia di Franco Di Mare, raccontata da lui. Intervista con lo storico inviato di guerra Rai
I giorni in bilico tra l'"alieno" male incurabile, le cose che ci sarebbero ancora da fare, le memorie dal fronte e di famiglia, l'amore, il dolore, l'amarezza per la Rai
La particella d’amianto nel cielo di Sarajevo, bomba a tempo che quando scoppia ti costringe a vedere davvero. Gli inizi per caso a Napoli, all’Unità, e quelli sempre per caso in guerra, dove la paura non deve mai farsi panico. Il viaggio in autostrada da neo padre maldestro della figlia che l’ha scelto guardandolo dalla culla. L’ex leader bulgaro, il Papa, Andreotti, l’assedio a Sarajevo e “l’assenza di sé” da rifuggire
Le parole per dirlo forse non ci sono, anche se ora fanno da titolo al libro che Franco Di Mare – storico inviato di guerra Rai, conduttore, ex direttore di Rai3 – ha scritto di getto in pochissimo tempo, adesso che di tempo ne vorrebbe molto di più di quello che l’alieno, così chiama il mesotelioma che aggredisce il corpo ma non lo spirito, deciderà di concedergli. Ma lui, Di Mare, le parole le dice tutte, una per una, mentre tiene d’occhio l’enorme apparecchio-respiratore tubolare che sembra sceso pure quello da un’astronave – alieno che doma alieno, sarebbe bello, pensa l’intruso ospite e cronista a cui le parole a un certo punto mancano, di fronte al racconto sussurrato e mimato del momento in cui, al fronte, si impara a distinguere tra panico e allerta, tra allerta che ti permette di scappare, se necessario, e panico che ti paralizza, togliendoti la lucidità nell’attimo del pericolo. “Un accumulo di paura gestito bene fa l’esperienza”, dice Di Mare, evocando il sesto senso che ti permette, al fronte, di capire che uno sguardo sbieco è l’anticamera del peggio e che una brutta impressione può darti la salvezza. Può, non deve. “Non sono stato più bravo di tanti colleghi che hanno perso la vita. Non sono stato più bravo di Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Miran Hrovatin. Sono stato solo più fortunato. La paura lucida ti dà una chiave, può anche andare male”.
E ora hai paura, Franco?, è la domanda che si vorrebbe fare ma non si riesce a fare, e meno male che lo spiega “Le parole per dirlo - la guerra fuori e dentro di noi” (ed. Sem), di che cosa è fatta la paura aliena che ti prende di fronte a quella diagnosi-mannaia: mesotelioma, e dei più cattivi. E’ lì che cominci a vedere, a vedere davvero, “come ho fatto a non capire prima?”, questo diceva a se stesso Di Mare nei corridoi sconosciuti del dedalo ospedaliero in cui ha trovato, però, anche una strana pace e la forza di sorridere quando, indicando la figlia Stella ora trentaduenne che esce dalla stanza di una casa immersa nel verde, rassicura l’interlocutore con figlia adolescente: “Vedrai che la fase della contestazione passa, e quello che c’è stato viene fuori”.
È bellissima, Stella, dice chi vede lei guarda se è tutto a posto, prima di chiudersi al porta alle spalle. Sì, è bellissima ed è bella dentro, dice Di Mare: “Ascolta la mia musica, è laureata in Economia e ama Dante: una volta ha anche vinto un premio a Firenze, all’Accademia dantesca”. Anni fa, non tanti, e ora Franco vorrebbe mettere l’alieno in pausa per portare Stella nella Sarajevo dove si sono incontrati la prima volta, lui futuro padre e lei futura figlia, e si sono scelti: lei unica bambina dai capelli scuri in una lunga fuga di culle con bimbi biondi, in un orfanotrofio della città assediata. Era il 1992, Franco si era perso, racconta, come ci si può perdere a trent’anni dopo la fine di una lunga relazione, prima e dopo i viaggi, nelle serate in cui si finisce tardi e si fa tardi, negli anni d’oro di un lavoro che appassiona, con tante persone e tante attenzioni attorno, tra ubriacature di esperienze che ti fanno pensare, erroneamente, che sia tutto così, troppo facile, la vita infinita e la terra lontana: non è necessario toccarla. Ma con Stella ha toccato subito terra, Di Mare, felice di farlo, e ogni volta che rischiava di perdersi di nuovo Stella lo riportava al qui e ora: ehi, papà, ci sono io, sembrava dire con gli occhi quella bambina portata in Italia con l’aiuto della Croce Rossa e di Maria Pia Fanfani. Ed è stato così, fuori dall’aeroporto di Ciampino, in un’estate lontana, che Di Mare si è ritrovato padre prima ancora di diventare marito di Alessandra, l’ex moglie con cui poi adotterà Stella - padre senza sapere da che parte cominciare. Come sul set di uno strano remake di “Tre scapoli e un bebè”, con il giornalista sommerso di vestiti e gadget per la neonata, regalo di amici, ma senza un’idea di come fare per poter arrivare con la bimba di dieci mesi a Napoli, a casa di sua madre diventata improvvisamente nonna. E se l’autostrada del Sole potesse parlare ricorderebbe forse quei due: a ogni pianto lui provava a indovinare.
Avrà fame? E le dava qualcosa da mangiare. Ma poi la bambina ricominciava a piangere. Avrà sete? E allora provava a darle qualcosa da bere, per poi empiricamente scoprire che la bebè andava semplicemente cambiata. “Quando la guardo camminare nel mondo mi commuovo”, dice oggi Franco. Amore ricambiato. Com’è ricambiato quello di Giulia, sua compagna da otto anni, delle sorelle e degli amici che si prendono cura del Di Mare rapito dall’alieno. Rapito, ma non come chi ha talmente sofferto da sparire nell’assenza di sé, scrive Di Mare nel libro, raccontando la storia di due ragazzini conosciuti in un giorno di fine guerra, a Kabul, in un orfanotrofio in cui le porte della mensa erano state chiuse prima che i due potessero tornare dall’inseguimento di un aquilone. L’inviato le aveva fatte riaprire con uno stratagemma, le porte: una delle piccole cose che si possono fare (“quello che si può, si cerca di fare, anche se è sempre poco”, dice), e i ragazzini avevano avuto infine due ciotole di minestra, sì, ma, contrariamente a qualsiasi essere umano che veda per la prima volta una telecamera, loro niente, erano rimasti immobili a fissare un altrove oltre il muro. “Non erano più tra noi”, dice Franco, erano stati risucchiati da un nulla salvifico, uno scudo contro i ricordi orrendi di quegli anni, chissà. Un’assenza-scialuppa, l’unica difesa.
Tante volte l’ha vista, Di Mare, quell’assenza, ma ha visto anche il suo opposto, l’estrema presenza di chi non vuole lasciare andare la memoria fresca, quella di chi, incredulo, si ritrova da un giorno all’altro in una città assediata, e cerca il modo anche paradossale per non smarrirsi, anche sfidando un cecchino per accaparrarsi i frutti di un giardino dei ciliegi dell’orrore, con la notte dietro la collina e lo sparo nel buio che può colpire tra le frasche, ma non importa, perché un cestino di ciliegie è la madeleine che ti riporta al prima, ai giorni felici in cui l’assedio non era neanche immaginabile. Un lampo nella notte, un frutto rosso, un albero, un ragazzo tradito dalla memoria della normalità. Di Mare ne imita il gesto, accanto al respiratore che sembra sceso dall’astronave: allarga la braccia, guarda in alto, spalanca gli occhi, come quel ragazzo sotto l’albero e sotto il cecchino. L’estrema presenza serve a chi si ritrova di fronte al mesotelioma che fiacca il respiro, ma non la voglia di vivere, e serviva all’anziano signore che a Sarajevo si era messo a vivere come in una bolla fragile di reiterazione: stesso tragitto casa-mercato e mercato-casa, tutte le mattine, come prima della guerra, per confrontare le rare verdure esposte sulle bancarelle. Senza comprare nulla, perché non c’erano soldi, ma con il senso del lessico famigliare per cui l’anziana signora, sua moglie, ripeteva al ritorno del marito dal mercato ogni giorno gli stessi sguardi, le stesse mosse. Una routine a passo doppio che poteva chiamarsi resilienza, non fosse stata troppo dura la realtà di una città dove il melting pot c’era già – musulmani, cristiani, ebrei in pacifica convivenza, in un disordinato e irresistibile caravanserraglio culturale, racconta Di Mare, prima che l’assedio ribaltasse tutto, sotto la roulette russa dei cecchini, e gli occhi spesso ignavi dei funzionari Onu.
E’ stato lì, a Sarajevo o in qualche altro luogo di dolore, in quelle terre, che l’alieno oggi insediato nel respiro ha allungato i suoi tentacoli invisibili fatti di particelle d’amianto, forse proprio in quel 1992 in cui Di Mare aveva già vissuto l’incredibile: scendere da una scaletta d’aereo dopo un viaggio da inviato nei paesi dell’Est per “Lezioni di mafia”, programma che l’allora direttore del Tg2 Alberto La Volpe aveva pensato con Giovanni Falcone, dopo aver lavorato con fonti di Falcone, e apprendere, al tempo pre-cellulare in cui le notizie viaggiavano in differita, che durante il suo volo di ritorno c’era stata la strage di Capaci. “La Volpe poi andò in onda lo stesso, con la sedia vuota su cui avrebbe dovuto esserci Falcone”, racconta Di Mare, testimone di un’epoca e di se stesso. Pochi mesi dopo, il conto alla rovescia del male ha cominciato impercettibilmente la sua lentissima corsa: il mesotelioma si manifesta 25-30 anni dopo aver respirato particelle d’amianto. “Seimila volte più leggera di un capello, la fibra di amianto scivolava serena nel cielo di Sarajevo”, scrive Di Mare. “Bombardamenti furiosi l’avevano liberata dalla prigione di Eternit e cemento dentro cui era stata costretta da anni di realismo socialista e adesso, spinta dai venti dei Balcani, volava finalmente libera insieme agli stormi di rondini che seguivano il richiamo misterioso che da sempre governa le vite degli uccelli migratori. Come loro, la fibra non conosceva ostacoli…”.
E’ bastato un respiro, in un luogo imprecisato: “E da quel momento la fibra rimase lì”, acquattata, “una bomba sepolta nel profondo della carne”. Bomba senza fretta, pronta ad attivarsi prima o poi, fino alla fitta acutissima che tre anni fa ha trasportato Franco Di Mare, incredulo, inizialmente noncurante, nella terra di plexiglas delle infinite analisi e delle cure. Ed è stato in un giorno di primavera di tre anni fa, che Di Mare ha chiesto all’allora amministratore delegato Rai un incontro, da dipendente, dirigente, inviato storico dell’azienda. “Un incontro per capire insieme che cosa fare”, dice oggi. “Non avevo inizialmente avanzato la richiesta dello stato di servizio”, richiesta avanzata successivamente: si tratta di un documento necessario a fini previdenziali-risarcitori, arrivato tardivamente pochi giorni fa (l’ad Rai attuale, Roberto Sergio, ieri, in Commissione di Vigilanza, ha riferito di aver risposto alla richiesta di documenti di Di Mare), dopo che il caso è esploso con le interviste di Di Mare a Giovanna Cavalli sul Corriere della Sera e a Fabio Fazio sul Nove, interviste in cui l’inviato denunciava anni di muro di gomma e silenzio e solitudine rispetto alla vicenda della malattia: mail e messaggi senza risposta, anche quando chiedeva soltanto un incontro preliminare. “La cosa più dolorosa per me, dice Di Mare, “sono state le parole scritte in un messaggio whatsapp nel maggio del 2021, messaggio in cui l’allora ad, rispondendo alla mia ennesima richiesta di un incontro, dopo altri messaggi caduti nel nulla – questione di umanità, dicevo, vista la mia malattia – scriveva: ‘Non accetto lezioni di umanità da te’. Da me?!? Da me che da trent’anni lavoravo in Rai, dimostrando di voler bene all’azienda. Da me che chiedevo un colloquio per capire come muoverci, vista la mia diagnosi, visto il vuoto normativo, visto che non esistevano precedenti di casi simili. Niente: tre anni di silenzio, sotto vari ad, fino a oggi”. Così non si cancella la sensazione a lungo provata: “Mi sono sentito trattato come un fastidioso questuante”.
E pensare che la Rai e Di Mare a un certo punto, a inizio anni Novanta, si sono scelti, nonostante la prima grande passione di Di Mare fosse la scrittura. “Ho iniziato per caso, all’Unità, e ci sono rimasto dieci anni. Mi piaceva la carta stampata”. Poi, per uno strano caso di destino o Nemesi, un pezzo rifiutato nel 1991 da Renzo Foa, allora direttore del quotidiano, si è fatto veicolo verso il Tg2, su consiglio della collega Lorenza Foschini, incontrata per strada dopo il gran rifiuto. Il pezzo, dice oggi Di Mare sorridendo, “era un’intervista all’ex leader bulgaro Todor Zhivkov sull’attentato al Papa. Al momento di rispondere sull’onnipresenza della ricorrente ‘pista bulgara’ nelle ipotesi e nelle ricostruzioni, Zhivkov si tirò fuori, come indirizzandomi su altro, come se in ambienti vaticani si escludesse la Bulgaria come protagonista: ‘E chieda a Giulio Andreotti’, mi aveva detto infine”. L’anno dopo, incontrando Andreotti a una cena dell’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, “dal nome evocativo di Oded Ben-Hur”, dice sorridendo il cinefilo Di Mare, il giornalista aveva chiesto e Andreotti aveva risposto che insomma, beh, forse era meglio “non rivangare”.
Era arrivato per caso anche il mestiere di inviato di guerra, anche se sotto sotto era già un sogno, dice Di Mare, “trasmessomi dalle letture hemingueiane che mio padre mi faceva a voce alta da bambino, a Napoli. Solo che poi la vedi davvero la guerra, nel suo sterco, fuori da ogni romanticismo”. Il padre, sindacalista, non poteva immaginare che il richiamo di Hemingway si sarebbe materializzato per il figlio nell’estate del 1992, nel giorno in cui la guerra in Bosnia impone anche all’Italia (e alla Rai) di precipitarsi a Sarajevo. Detto e fatto: Di Mare ignora il consiglio del collega che gli dice “datti malato”, vista l’inesperienza, e parte: lui e l’operatore, con il minimo dell’attrezzatura e neanche un giubbotto antiproiettile, comprato poi da un collega straniero, per usarlo uno in due, a turno. E’ stato in quei giorni caotici che Di Mare ha fatto la conoscenza con paura, panico e allerta, fino a raggiungere una consapevolezza: voglio raccontare le storie di chi dalla guerra si ritrova travolto. Gente come te, come me, popolazione civile. Gente per cui la verità diventa doppia e tripla, come in “Rashomon” di Akira Kurosawa, dice: tre verità per la morte di un samurai, e la passione per il cinema che si fa chiave di lettura e di racconto per immagini. E’ stato un grande amore, quello per il mestiere di chi porta la voce delle persone in guerra. “Mia figlia, da piccola, mi vedeva in tv e baciava la tv, mi raccontava mia madre da Napoli”, dice Di Mare. E un giorno, appena tornato da una trasferta, ha trovato Stella davanti al telegiornale della sera e alle immagini di un suo collegamento, indecisa se salutare il papà in carne e ossa o quello sullo schermo: ma quanti papà ho, papà?
Ma è stato anche un amore chiuso improvvisamente nel cassetto, quello per il giornalismo al fronte. “Come quando smetti di fumare: un giorno ho detto ‘adesso basta’. Volevo fare altre cose”. Sono venute le trasmissioni di informazione, la direzione di una rete. A chi lo ascolta, ora, viene in mente il titolo dell’autobiografia di Gabriel Garcìa Marquez: “Vivere per raccontarla”. Ma Di Mare no. Vivere per vivere, dice con ogni parola e ogni gesto. “Non so se riusciremo a farle, tutte le cose che vogliamo fare, con mia figlia Stella, con il mio amore Giulia, con le mie sorelle, con i miei amici”, dice, e nella stanza, dal terrazzino, entra l’aria di primavera che prima, nel giorno nuvoloso, si era nascosta chissà dove.
“La mia vita senza me”: all’intrusa cronista viene in mente, uscendo, forse perché Di Mare scrive e parla in modo cinematografico, il film di Isabel Coixet in cui la protagonista, dopo aver appreso di avere un male incurabile, pianifica tutti gli obiettivi da raggiungere prima, durante e dopo il suo ultimo periodo sulla Terra. Caro male, non mi spegnerai, diceva la sua faccia mentre programmava questo e quello. Caro alieno, dice la faccia di Di Mare mentre ricorda, sorride e si preoccupa che il caffè per l’ospite sia buono, che rabbia serena che mi fai. Che rabbia serena che mi fa non poterti dire, come alla sigaretta: adesso basta, voglio fare altre cose.