L'opinione
Sconfiggere la corruzione con più concorrenza. Lezioni dal caso Liguria
Una sana economia liberale dovrebbe promuovere concorrenza e merito dentro una cornice in cui l'intervento politico garantisca l'accesso al libero mercato. Ripensare l'interdipendenza tra politica e imprenditoria
Le soluzioni liberali non vanno di moda, di questi tempi. Specie in Italia, dove la meritocrazia è sempre evocata, ma poi il nesso con la concorrenza, che premia i migliori ma i peggiori invece no, è politicamente indigesto. Cos’è esattamente che non sapevamo? Che i politici parlano con gli imprenditori o che questi finanziano quelli? Se ci sono stati reati ce lo diranno i giudici, ma non è affatto questo il punto. Sperare che imprenditori e politici lavorino per il bene comune è come sperare nella benevolenza del macellaio di Adam Smith. Ce li auguriamo così, ma non ci dobbiamo contare. La corruzione si combatte limitando le situazioni che la incentivano. L’imprenditore mira al profitto e il politico al consenso: questo è legittimo. Ma se si crea un sistema dove il profitto dell’imprenditore dipende dalle decisioni del politico (o della persona da lui nominata) e il consenso del politico dipende dai finanziamenti che ottiene, la frittata è praticamente già fatta.
Un’economia liberale – che non è sinonimo di capitalismo selvaggio o di sfrenata corsa al profitto, contrapposta al bene comune, incurante di ogni regola – deve invece promuovere concorrenza e merito all’interno di meccanismi decisionali dove l’intervento politico dovrebbe solo garantire il libero accesso al mercato, la parità di condizioni fra i concorrenti, e l’uso migliore di risorse scarse quali le coste: crocevia di interessi ambientali e turistici (vedi alla voce Bolkestein), chiave per l’efficienza delle catene logistiche globali incardinate sui porti, cruciali per la manifattura e i consumatori. Nei porti le democrazie avanzate sposano il modello “landlord”: l’ente pubblico è il proprietario e i terminalisti privati sono gli inquilini, pagano un canone congruo e investono per rendere il terminal più efficiente, perseguendo così anche l’interesse comune. Il rischio da evitare è la commistione fra obiettivi generali (traffico, occupazione) che giustificano investimenti pubblici – anche europei, nel caso della diga di Genova pagata dal Pnrr – e interessi privati. Se la diga accresce l’attrattività del porto, ne traggono beneficio l’economia locale e le imprese e i consumatori di tutto l’hinterland. Ma delle economie di scala delle navi giganti beneficiano in primis gli armatori e i terminalisti. Un enorme investimento pubblico può (lecitamente) avvantaggiare un terminal che a quel punto è molto appetito.
Ma servono allora tre cose. Primo: che il terminalista sia scelto con procedure pubbliche trasparenti, condotte da esperti internazionali di riconosciuta indipendenza. Secondo: che il valore della concessione rifletta gli investimenti pubblici di cui beneficia (serve un’asta internazionale, non una trattativa segreta sollecitata da un imprenditore locale). Tre: che la concessione duri il tempo strettamente necessario a remunerare gli investimenti privati aggiuntivi.
In Italia il modello portuale – viziato da nomine spesso lottizzate, insufficiente ricorso alle gare, incertezza delle norme, inaffidabilità delle istituzioni – scoraggia molti investitori seri, e non produce risultati efficienti, se non occasionalmente, quando rari leader pubblici autorevoli incontrano investitori di caratura internazionale, e procedono nella direzione che assicura anche l’interesse generale.
Ma se le scelte pubbliche non riescono a essere eccellenti, occorre almeno, specie in un settore che si confronta ogni giorno sui mercati internazionali, che siano ridotte al minimo. Adam Smith sosteneva che l’interesse collettivo sarebbe stato ottenuto attraverso l’aspirazione di ciascuno al proprio tornaconto. Un ottimismo forse eccessivo, ammettiamolo. Ma nell’Italia di oggi – e non solo nei porti – legislatori, burocrati, politici, vertici di autorità sembrano volere l’esatto opposto: il profitto privato con l’utilizzo del denaro pubblico. Servirà allora ricordare, con Margaret Thatcher, che “non esiste il denaro pubblico, ma solo il denaro dei contribuenti”.
Enrico Musso, professore ordinario di Economia applicata, Università di Genova