Il Pd e il Jobs Act

Tutti con Elly. In segreteria solo in tre non firmano i referendum della Cgil

Gianluca De Rosa

Alfieri, Serracchiani e Manzi non seguono la segretaria. Il bonacciniano Baruffi ipotizza: "Potrei sottoscrivere il quesito sulla sicurezza". L'imbarazzo di Misiani e Sereni

Tredici zelanti firme, tre enormi imbarazzi, una firma a metà e tre coraggiosi rifiuti. Elly Schlein – che il 23 maggio sfiderà in tv a “Porta a Porta” la premier Giorgia Meloni – ha sottoscritto i referendum della Cgil contro il Jobs Act, ma per evitare di spaccare il partito, ha inventato la “libertà di firma”. Ognuno insomma, faccia un po’ come vuole. Dentro la sua segreteria, che pure in quanto unitaria comprende anche la minoranza riformista , l’hanno seguita quasi tutti. Sono solo tre su 22 i rappresentanti della segreteria democratica che certamente non firmeranno i referendum della Cgil. Il primo a uscire allo scoperto è stato Alessandro Alfieri, che al Nazareno è il titolare del capitolo Riforme e Pnrr: “Non li firmerò – dice  – il partito dovrebbe guardare avanti e non indietro”. Come lui farà anche Debora Serracchiani. La responsabile Giustizia, all’epoca del rinnegato pacchetto sul lavoro, era vicesegretaria, tra le più battagliere anche in tv nella difesa del Jobs Act. Oggi al Foglio dice: “Non firmo perché è una legge di dieci anni fa che è stata anche profondamente rivista dagli interventi della Corte costituzionale. Trovo anacronistico parlarne oggi”. Una scelta fatta anche per non piegare la linea del partito a quella della Cgil: “Da deputata – spiega – è in Parlamento che mi impegno per migliorare le leggi”. Tra chi non ha bisogno di frasi di trucchetti retorici per aggirare la domanda ecco anche anche Irene Manzi, deputata e responsabile Scuola della segreteria dem: “Ho votato quella legge e dunque non firmerò i referendum per una questione di coerenza verso la mia storia personale”.  Più vaga, per assecondare lo sforzo unitario, è invece la posizione di Davide Baruffi, responsabile Enti locali, ma soprattutto fedelissimo del presidente e leader della minoranza Stefano Bonaccini. “Ci sto pensando senz’altro potrei firmare quello sulla sicurezza negli appalti, di certo però sono più concentrato sulla raccolta delle firme per il salario minimo, una battaglia che ci unisce”, spiega. E Bonaccini? “Penso che anche Stefano stia ragionando sull’eventuale firma del quesito sulla sicurezza, ma ripeto guardiamo avanti”. L’invito insomma è sempre quello: attenzione su quello che unisce, salario minimo e rinnovi contrattuali, piuttosto che su ciò che divide, il Jobs Act. 


Tra gli schleiniani invece è una gara di zelo a chi firma più in fretta. Sandro Ruotolo, responsabile Informazione, sostiene di essere stato il più lesto: “Penso di essere stato il primo a firmare, senza grandi annunci. D’altronde il superamento del Jobs Act era parte integrante della mozione Schlein che ha vinto il congresso. Mi dispiace che qualcuno non sia contento, ma non abbiamo fatto alcuna forzatura, se ne faranno una ragione anche i contrari”. Hanno già firmato anche la coordinatrice della segreteria Marta Bonafoni, Marco Furfaro, Annalisa Corrado, Igor Taruffi. Per competenza la firma rilevante sarà senz’altro quella di Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del Pd: “Non ho ancora firmato, ma lo farò senz’altro”, spiega. Stesso discorso per la responsabile Pa Stefania Bonaldi, per quella legalità, la senatrice Vincenza Rando, e per l’europarlamentare e titolare del capitolo Politiche agricole dentro alla segreteria Camilla Laureti “Non l’ho ancora fatto perché ci tengo a farlo in presenza”, dice.  Tra gli schleiniani fa eccezione solo la responsabile dem alla Partecipazione, la giovane Marwa Mahmoud: “Devo approfondire prima di firmare qualcosa”, spiega.
Anche Marco Sarracino, deputato e responsabile Sud in segreteria,  è tranquillo: “Per me firmare è questione di coerenza: in direzione nazionale quando si votò il Jobs act fui tra i 20 che dissero no”. Con lui a votare contro il provvedimento renziano c’erano Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e l’attuale capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, ma anche Alfredo D’Attore, oggi responsabile Università della segreteria, anche lui è pronto a firmare i referendum di Landini. Erano invece favorevoli al Jobs Act durante quella direzione e in tutti i passaggi legislativi successivi sia Antonio Misiani, sia Marina Sereni. Sostenitori di Schlein al congresso  e oggi esponenti di punta della segreteria,  responsabile economico lui e Salute lei. Non stupisce insomma che i due siano tra i più imbarazzati. Due giorni fa Misiani ha risposto a questo giornale spiegando: “Il Jobs Act ha dato risultati deludenti e segnato una spaccatura con il mondo del lavoro”, ma si è rifiutato di rispondere sulla sua eventuale firma per l’abolizione di quel provvedimento che nel 2015 definiva “rivoluzionario”. Lo stesso ha fatto Sereni che interpellata sul punto ha preferito risponderci come si fa con il venditore di un aspirapolvere che non si vuole acquistare: “No grazie, non sono interessata”.  L’ex ministro Dario Franceschini, capo di Area dem, la corrente di cui Sereni fa parte, ha già fatto sapere che non firmerà i referendum, lei però, nonostante le insistenze, preferisce non rispondere. Di mancata risposta ce n’è infine un’ultima. Quella di Peppe Provenzano, che però è da sempre un acerrimo nemico del Jobs Act. Insomma, la sua non risposta più che all’imbarazzo sembra dovuta alla sindrome marchese del Grillo: “Io so’ io, a voi non rispondo un ca...”.