Foto Ansa

Contro la retorica declinista

Un "Crush!" per salvare Genova. L'ideologia che non vuole cambiamenti è peggio della politica

Maurizio Crippa

Non solo inchieste. Il "caso Genova" rischia di trasformarsi in un nuovo totem simbolico di un'Italia che non vuole cambiare. Come per Venezia col Mose o Taranto con Ilva. Alternative? Nessuna. A Genova servono il porto nuovo, il tunnel. Non le chiacchiere

Genova per noi? Ci vorrebbe per il caso Genova l’equivalente del geniale spot “Crush!” di Apple, quello purtroppo ritirato perché i creativos si sono sentiti minacciati nella loro suscettibilità: una pressa idraulica che distrugge tutti i vecchi modi di produzione delle idee e li compatta in un monolite ultrasottile del futuro. Bisognerebbe prendere tutte le idee vecchie, banali, passatiste, paraletterarie e funerarie su Genova, quelle che stanno danzando in questi giorni come il teatrino dei pupi, schiacciarle con la pressa e buttarle a mare. Da quelli che si lamentano perché Genova era la Superba e ora è un baraccone (Maggiani), a quelli della terra “stuprata impunemente” (Scurati), a quelli che Genova è “di nuovo ferita” (da cosa, da qualche tangente ipotetica e per giunta di pochi e non decisivi quattrini?), a quelli che riesumano persino i camalli del porto, che nell’epoca dei super container sono antiquariato come gli spazzacamini col fotovoltaico. Basterà un giro scombiccherato di progetti, tangenti e untorelli a schiantare Genova, di fronte a interessi reali, cioè concreti e imponenti? Un porto da rifare, con la scommessa di farlo tornare fra i più importanti del Mediterraneo, una diga per cambiare volto persino al mare, il tunnel subportuale sottomarino più grande d’Europa. Investimenti, interessi e sfide globali che è meglio non lasciare ai cinesi, chiedere a Gianluigi Aponte. Una città che cambia volto, economia.

 

E magari, chissà, anche demografia:  oggi a Genova si invecchia male o si fugge. Non saranno la pochezza della politica o l’intraprendenza della magistratura a determinare l’esito di tutto questo. Non da sole, almeno. Se non ci fosse il rischio che a facilitare sia il clima malmostoso che avvolge di nebbia “il caso Genova” e lo sta trasformando in un simbolo. Un grumo di idee fatte, tra populismo passatismo e  declinismo, che si è già visto all’opera con danni micidiali in altre vicende italiane.  Tenersi Genova com’è, anzi farla ritornare all’indietro, senza fabbriche e con meno navi. Anzi non fare nemmeno il terzo valico ferroviario – gli attentati anarco-insurrezionalisti sono una lotta conservatrice di lunga durata (intanto Luca Bizzarri: “Sono sul treno che va da Genova a Milano. Lo prendevo da ragazzo, ci metteva un’ora e quaranta. Poi siamo andati su Marte. Il treno per Milano da Genova ci mette sempre un’ora e quaranta”). E’ già accaduto a Venezia. Con la scusa di un po’ di dazioni, che hanno portato a condanne o anche al consueto nulla di fatto dei pm, contro il Mose si era coalizzato un fronte eco-passatista che, avesse vinto, avrebbe lasciato oggi la città sott’acqua. Fortunatamente il Mose è stato fatto; e ugualmente se oggi Venezia è una città viva e che produce e attrae economia lo deve alla sua industria dell’arte, alla globalizzazione della Biennale e non certo ai comitati contro “i potenti che vogliono profanare Venezia” à la Settis, à la “Se Venezia muore”.

 

Venezia non è ancora morta perché continua, con le sue difficoltà, a cambiare e lavorare per stare a galla. L’abbiamo visto a Taranto, dove ai pasticci industriali e politici si è sempre sovrapposta l’ideologia ecologica per cui l’acciaieria doveva morire, e morisse Taranto con tutti i filistei. Tanto gli operai potranno tornare ad allevare cozze nel mare risanato. Si è visto. Si è visto di recente con quelli che non volevano il rigassificatore a Piombino, perché i disoccupati delle acciaierie intanto si erano riciclati a gestire trattorie e chiringuitos e non volevano rovinato il vista mare.  Casi concreti, drammatici, di trasformazioni ambientali e industriali che sono diventati altrettanti totem, altrettante elaborazioni simboliche tutte nel segno “dell’Italia che non siamo, l’Italia che non vogliamo”. La corruzione politica è lo specchietto per le allodole, di solito attira i tordi dell’opinione pubblica. Sotto scivola la più dannosa ideologia del ritorno al passato, allo stato di natura o quasi. La laguna di Venezia non sarebbe durata un giorno se, da secoli, gli uomini non la modificassero in continuazione. Altro che mito di lasciarla andare così com’è, l’importante è che non ci passino più le navi. Maurizio Maggiani poeticamente parla della Genova “che è stata una vera capitale di dignità e signorilità per sette secoli”. Forse anche “nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”?

 

Ma la Superba è finita da due secoli e anche il terzo vertice della potenza industriale, e la Genova rossa di operai, non c’è più. Recuperare un territorio e una città significa anche renderli attrattivi, fare in modo di renderli meglio vivibili. Ma qui non volevano nemmeno la Gronda e si accarezza il mito  di prima della “rapallizzazione” della Liguria (Scurati) come se per realizzare il progetto del porto invece di una fresa meccanica bastasse avere una macchina del tempo. I giornali usano il termine tecnico “tombare” (interrare gli spazi di mare tra le banchine) per spaventare i lettori, manco fosse una Fukushima di cemento pronta a inghiottire le biodiversità. Si parla di “interessi sul porto” come se la più grande industria della città dovesse essere un parco giochi di beneficenza.  Maggiani evoca Renzo Piano che regalò il progetto per il nuovo ponte, si dimentica di dire che non fosse stato per la legge speciale che bypassava gli appalti il Morandi sarebbe lì ancora con il suo tragico moncherino. Non è detto che i sogni (o bisogni?) dei buttati in barca siano giusti e vincenti. Ma è chiaro che Genova debba diventare qualcosa, anche se non “la Liguria come la Florida e Palmaria come Capri”, se non vuole diventare solo la nuova favola triste dopo Venezia, che intanto però non affonda. Ma ci vorrebbe la pressa, contro le retorica.

Di più su questi argomenti:
  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"