l'editoriale del direttore

Il premierato? C'è chi preferisce rincorrere i fascisti su Marte

Claudio Cerasa

Nessuna violazione del principio di sovranità, nessuna alterazione della forma repubblicana: la riforma costituzionale proposta dal governo Meloni può non piacere, ma dire, come fa l’opposizione, che è un pericolo per la Costituzione è una barzelletta

Il dibattito parlamentare che si è animato negli ultimi giorni attorno ai temi del premierato ha aiutato gli osservatori meno distratti a mettere a fuoco alcuni elementi interessanti relativi al futuro di quella che è la più importante riforma del governo Meloni. Un elemento di interesse riguarda la volontà da parte della maggioranza di dimostrare in tutti i modi il suo profilo dialogante sul tema (tentativo non perfettamente riuscito). Un secondo elemento di interesse riguarda la volontà da parte delle opposizioni di dimostrare in tutti i modi che la riforma su cui punta il governo Meloni non è altro che il riflesso dello spirito autoritario, antidemocratico, orbaniano, praticamente fascista che anima la maggioranza alla guida del paese (tentativo perfettamente riuscito nelle chat di Massimo Giannini).

  

A forza di gridare al lupo al lupo, verrebbe da dire, il lupo poi non lo si vede quando arriva davvero e si potrebbe dire che spesso il fronte dell’anti melonismo chiodato per definire l’azione del presidente del Consiglio tende a usare parole che non sempre riesce a utilizzare per condannare i terroristi di Hamas e il terrorismo di Putin (chat progressiste contro il fascismo di Hamas ne abbiamo?).

  

Ma la sostanza della questione è più interessante della provocazione e il tema della “deriva democratica” veicolata dalla riforma Meloni vale la pena di metterlo a nudo davvero. Pochi giorni fa, in Senato, a suonare il tamburo della minaccia orbaniana è stato anche un senatore del Pd solitamente moderato come Dario Parrini, il quale, facendo proprie le tesi di Repubblica, del Fatto, del Movimento 5 stelle, tre mondi ormai spesso sovrapponibili, ha suonato la grancassa, dando voce a un sentimento più profondo del Pd. Dire che “con questa riforma la nostra democrazia sarà più forte è una bugia, perché la forza di una democrazia dipende dall’equilibrio che c’è tra i poteri che della democrazia sono il pilastro, dipende da quanto è forte il pluralismo, da quanto sono forti le garanzie e gli organismi di garanzia. La nostra democrazia con questa riforma diventa più debole e più povera, altro che una democrazia più forte; avviene esattamente il contrario”. Avete letto bene: “Esattamente il contrario”.

 

  

Abbiamo già scritto più volte su questo giornale che una riforma che permetterebbe di avere un governo più stabile, che consentirebbe al Parlamento di avere coalizioni meno ballerine, che darebbe la possibilità agli elettori di avere maggiori poteri per decidere a chi affidare la guida del governo, può essere ritenuta “pericolosa”, “eversiva”, “estremista” e  un pericolo per la Costituzione solo da chi considera la non governabilità, il parlamentarismo esasperato, l’instabilità, il disordine come gli unici argini all’estremismo (la logica è sempre la stessa: se non puoi battere il tuo avversario con i voti, fallo con le regole, ingabbialo con le procedure). Ma ad aver offerto spunti di riflessione utili a smascherare alcune grossolane ipocrisie degli avversari della riforma costituzionale ci ha pensato una poco conosciuta senatrice di Italia viva, Dafne Musolino, tra i componenti della commissione Affari costituzionali, che con un intervento formidabile, fatto la scorsa settimana al Senato, ha offerto elementi utili per ricordare perché urlare all’emergenza democratica, con questa riforma, rischia di essere un modo come un altro di iscriversi al partito dell’“al lupo al lupo” (i gruppi di resistenza su WhatsApp funzionano quando il nemico è vago, quando il nemico è concreto le notifiche non si vedono).

 

Si chiede Musolino: come si fa, anche dall’opposizione, a non condividere l’essenza di una riforma la cui funzione è quella di superare l’attuale forma con la quale si arriva alla formazione del governo, attribuendo ai cittadini un potere diretto di elezione del presidente del Consiglio dei ministri? Come si fa a non capire che c’è una necessità, anche da parte dell’elettorato, di aumentare la capacità rappresentativa, di aumentare la possibilità per i cittadini di scegliere il proprio rappresentante, di scegliere colui al quale affidare le sorti del governo e consegnare la responsabilità di realizzare il programma per il quale si presenta alle elezioni e chiede di essere votato?

 

Come si fa a negare che la presenza dei governi tecnici, nel nostro paese, la si deve non al virtuosismo del sistema politico ma a un suo virus, l’instabilità, che l’Italia ha governato bene, in questi anni, anche grazie a chi ha guidato il paese dal Quirinale, ma che costituisce un’anomalia del sistema che scoraggia gli elettori e che, per quanto governabile, è bene che venga corretta? Si può dire, sostiene la senatrice, che in questa legge vi siano tante lacune (provare a semplificare il quadro istituzionale senza introdurre una forma di bicameralismo che superi quello attuale significa fare le cose a metà e avere una riforma costituzionale che si richiama a una legge elettorale che porterà all’elezione diretta del premier e che nessuno conosce è un’anomalia grave: significa far votare una riforma alla cieca).

  

Ma dire, come si è provato a fare la scorsa settimana in Senato, come si prova a fare ogni giorno tra i banchi dell’opposizione, come si prova a fare ogni giorno sulle pagine dei giornali d’opposizione, che la riforma sia anche un pericolo per la Costituzione è una barzelletta. E lo è per una ragione semplice: gli articoli 1 e 139 della Costituzione, quelli più citati quando si cerca di mettere in guardia il popolo sovrano sui pericoli della riforma, non sono minacciati, perché “la forma repubblicana viene preservata, nessuno altera la forma repubblicana, nessuno sottrae poteri al Parlamento e nessuno sottrae poteri agli elettori, anzi, semmai c’è una responsabilizzazione degli elettori”.

  

Questo disegno di legge, a seguito degli emendamenti presentati dallo stesso governo, che ha tenuto conto dei rilievi fatti dagli autorevoli costituzionalisti che sono stati auditi in commissione, ha previsto espressamente che, a seguito della mozione di sfiducia, il governo si scioglie e le Camere si sciolgono, e “questa è la più evidente garanzia che il potere appartiene al popolo. Non c’è quindi una violazione del principio di sovranità, una violazione della forma repubblicana perché, al contrario, proprio questa parte della riforma sancisce un rapporto diretto fra gli eletti e gli elettori e quindi rispetta gli articoli della Costituzione 1, 139 e 49 sul diritto dei cittadini di aderire ai partiti politici”.

  

La riforma costituzionale può non piacere, naturalmente, ma continuare a descriverla per quello che non è, un pericolo per la democrazia, un attentato alla Costituzione, una deriva orbaniana, porta a sospettare che chi non ama questa riforma abbia scelto di ragionare su un tema cruciale per il futuro dell’Italia con una postura pericolosa: sfuggire sistematicamente dalla realtà per continuare a rincorrere i fascisti su Marte.
 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.