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La solita gogna

Tre indizi per capire quando nel processo mediatico scatta l'ora del cialtrone

Claudio Cerasa

Dittatura dello “spunta”, logica della “cricca”,  intercettazioni maiale. Nell’inchiesta sulla corruzione in Liguria, è arrivata quella fase in cui le vicende giudiziarie vengono affiancate sui giornali da allusioni gratuite, da aggettivi fuori luogo e da una pretestuosa serie di parole ricorrenti

Arriva sempre un momento, durante un’inchiesta che ha grande rilievo sui media, in cui le accuse non sono più sufficienti a sfamare la pancia dell’opinione pubblica. E’ in quel momento che tra i giornali, i cronisti e le procure scatta come una scintilla magica: noi continuiamo a occuparci volentieri di questa inchiesta, voi però continuate a offrirci bignè per poter saziare l’appetito dei nostri lettori. Nell’inchiesta sulla corruzione in Liguria, è arrivata quella fase durante la quale le inchieste giudiziarie vengono affiancate sui giornali da allusioni gratuite, da aggettivi fuori luogo e da una serie di parole ricorrenti – tre in particolare – il cui utilizzo segnala con una certa precisione un passaggio ricorrente durante la fase di un’inchiesta: l’ora del cialtrone.

Il primo indizio per capire se la fase appena citata sia presente o no all’interno del dibattito pubblico è quando improvvisamente le pagine delle cronache giudiziarie si riempiono di intercettazioni penalmente irrilevanti. Le intercettazioni penalmente irrilevanti sono fondamentali per un’indagine che vuole vincere la partita del processo mediatico: aiutano a rafforzare un’idea che magari non si riesce a dimostrare con le prove e offrono un contributo strategico al tentativo di descrivere il clima tossico all’interno del quale si muovono i protagonisti di un’inchiesta. Succede così che sia possibile leggere sulle pagine dei giornali un’intercettazione del tutto irrilevante come quella al sindaco di Genova (“Diamo da mangiare a questi maiali”) che contribuisce a irrobustire l’idea che i protagonisti del sistema Genova siano dei personaggi senza valori etici, immorali, dunque potenzialmente colpevoli di qualsiasi cosa.

Accanto alla diffusione capillare di intercettazioni irrilevanti vi è poi un altro passaggio importante che permette di mettere a fuoco la presenza di una fase pericolosa all’interno di un’inchiesta ed è quella in cui i giornali utilizzano l’espressione “spunta”. Nell’inchiesta, spunta. E ciò che spunta, che quasi mai ha a che fare con le indagini, aiuta sempre a portare acqua al mulino della tesi dell’accusa e aiuta sempre a conquistare la fiducia di un organo importante all’interno di un processo mediatico: il tribunale del popolo. Tra le carte dell’inchiesta genovese, per esempio, “spunta” l’ex procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, avvistato sullo yacht dell’imprenditore Spinelli e costretto a riconoscere di aver avuto con Spinelli una consulenza che senza quello “spunta” sarebbe rimasta un fatto privato. C’è qualcosa che non va nello “spunta”. Ma c’è qualcosa che non va anche quando un magistrato sceglie di utilizzare in un’ordinanza espressioni da scrittore (significa che le prove non parlano da sé e che per farle parlare è necessario giocare con le parole: per esempio gli inquirenti definiscono “una prassi da gangster” il gesto compiuto da alcuni ospiti di Spinelli: telefoni lasciati all’ingresso dello yacht).

E c’è qualcosa che non va anche quando i giornali utilizzano parole che fingono di essere imparziali ma nascondono un’adesione piena alla tesi dell’accusa (una su tutte: “La cricca”). L’utilizzo di espressioni che esprimono una condanna fino a prova contraria dei protagonisti, miscelate con intercettazioni penalmente irrilevanti, unite a loro volta a demonizzazioni dei contesti descritti attraverso la trasformazione, per esempio, del lusso in veicolo inevitabile di malaffare aiuta a rafforzare un meccanismo cruciale all’interno del processo mediatico: permette all’accusa di poter conquistare un ottimo spazio mediatico, sottrae alla difesa occasioni per mostrare le eventuali debolezze dell’accusa e crea un habitat naturale per far sì che i giudizi etici e morali possano saldarsi con le ipotesi di reato, creando un mondo osceno all’interno del quale chi è accusato deve dimostrare la sua innocenza,  non il contrario, e all’interno del quale la dittatura dello spunta, dinanzi al tribunale del popolo, conta più del rispetto dello stato di diritto. Avanti il prossimo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.