Giorgia Meloni - foto via Getty Images

Governare i guai

Nomine, Ita, Tim. Su cosa si giocano la reputazione Meloni & Co.

Stefano Cingolani

Oltre il debito. Tutti gli ostacoli sulla strada del governo: sono una ventina i nomi che l'esecutivo deve trovare in un complesso rebus tra Milano, Roma, Bruxelles, Parigi e Berlino. Una delle poche conferme è per Scannapieco in Cdp

Se è vero che gli esami non finiscono mai, quelli di Giorgia Meloni sono solo all’inizio. Basta metterli in fila uno dopo l’altro per farsi venire il mal di testa. Ne abbiamo elencati una ventina da affrontare a cavallo delle elezioni europee e per ciascuno la soluzione va trovata non solo dentro i confini nazionali, ma in un complesso incrocio tra Roma, Milano, Bruxelles, Parigi, Berlino, con una puntata a Londra dove ci sono alcune banche d’affari con un peso fondamentale come la JP Morgan, per arrivare a Pechino. Alla faccia del sovranismo. Per non fare un catalogo tanto lungo da consumare tutto lo spazio, abbiamo raggruppato i problemi in due blocchi, quelli macroeconomici che ruotano attorno alla politica di bilancio e quelli industriali.
 

Il primo capitolo è ovviamente il superbonus che porta con sé non solo gli effetti nefasti del passato (abbiamo ormai superato i 160 miliardi di euro), ma anche quelli presenti e futuri. Le banche suonano l’allarme e si sente parlare di un fondo pubblico per alleggerirle dei nuovi crediti in via di deterioramento. Chi paga non è chiaro. Ma anche le imprese edili chiedono di essere ricompensate per non bloccare i lavori. E non si possono fare i conti dello stato senza sapere quel che bisognerà mettere in campo. Attualmente mancano le risorse (una ventina di miliardi) per garantire il rinnovo degli sgravi fiscali. Il tempo stringe perché a luglio l’Italia entrerà quasi certamente in procedura d’infrazione e comincerà il braccio di ferro prima con la vecchia, poi con la nuova commissione. Il deficit è ben sopra il mitico 3 per cento, ma quel che inquieta è il debito che continua a salire oltre il 141 per cento. S’è rifatto vivo anche lo spettro del Mes: come può l’Italia trovare un occhio di riguardo se insiste a non approvare il trattato che, guarda caso, serve a sostenere le banche? Non è forse un caso se secondo l’agenzia Mni-Market News, che cita una fonte governativa, Meloni è intenzionata a riaprire il capitolo ratifica del Mes dopo le elezioni europee.
 

L’intreccio industriale è persino più aggrovigliato. Cominciamo dal tormentone Ita-Lufthansa. Sembra chiaro che l’attuale commissione intende bocciare l’accordo e nuove voci di dentro lo confermano. C’è tempo fino ai primi di luglio, ma allora non sarà insediata la nuova guida. Urge, quindi, un piano B che oggi non c ‘è. Non va ancora in porto la mitica separazione della rete Telecom che dovrebbe portare con sé il salvataggio di Open Fiber, sempre più urgente visti i debiti accumulati (4,6 miliardi di euro a fine 2022, ultimi dati ufficiali). L’Ilva va avanti tra blocchi e sblocchi degli altiforni e il suo futuro, ormai in mano al governo, non è garantito. Con la Stellantis è guerra aperta, mentre si decide sugli incentivi statali ed arrivano le auto elettriche cinesi. Un dossier che andrà affrontato nel viaggio di Meloni a Pechino confermato, ma non si sa quando.
 

Molte delle partite industriali s’incrociano anche con le prossime nomine, a cominciare dalla Cassa depositi e prestiti. Le fondazioni alle quali spetta il presidente hanno confermato Giovanni Gorno Tempini e sembra quasi certo che il governo confermi l’amministratore delegato Dario Scannapieco. È più che in bilico la poltrona di Luigi Ferraris alle Ferrovie: il ministro Salvini non lo ama e sarebbe orientato a nominare Stefano Donnarumma che sembrava destinato all’Enel dove invece l’hanno spuntata Forza Italia con la presidenza a Paolo Scaroni e Ignazio La Russa con Flavio Cattaneo come capo azienda. Una interessante partita si apre alle Poste: la posizione di Matteo Del Fante è solida, tuttavia il governo vuole vendere una bella quota per far cassa. Bisognerà capire quanto (ieri il ministro Giorgetti ha detto che “la maggioranza di controllo dell'azienda rimarrà allo stato”) e se i nuovi equilibri avranno un impatto anche sulla governance. Ultima, ma certo non per importanza, arriva la Rai, specchio degli equilibri di potere. I bene informati sostengono che l’unica casella sicura è quella di direttore generale assegnata a Giampaolo Rossi fedelissimo di Giorgia al posto del troppo “democristiano” Roberto Sergio. Il totonomine imperversa, però chi gioca al casinò della TV di stato è quasi sicuro di perdere.

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