Matteo Renzi (è stato il suo governo a istituire il Jobs act) con Elly Schlein, segretaria del Pd (foto LaPresse)

riflessioni democratiche

Cari riformisti, è ora di alzare la testa

Tommaso Nannicini

“Ci siamo scusati abbastanza”. Un’analisi dell’eterno confronto con  radicali, massimalisti e progressisti  all’interno del Pd. La progressiva solitudine dei leader. Il referendum sul Jobs act, un caso di studio

Se non nascondesse qualcosa di più profondo sulla fragilità della cultura politica su cui si fonda il Partito democratico, non varrebbe la pena di tornare sulla fake news dei referendum Cgil che aboliscono il Jobs act (senza farlo). Ci torno giusto come “caso di studio” di un problema politico più generale. Parto quindi dalla teoria, per poi arrivare all’analisi empirica. E la teoria è che il Pd soffre di tre patologie.

Le tre patologie del dibattito interno al Pd

La prima patologia è il “cambiamento opportunista”. Intendiamoci: il cambiamento è vitale nelle organizzazioni collettive. Non cambiare significa non pensare, col rischio di estinguersi. Ma c’è un cambiamento che matura da una riflessione profonda, aperta. E un cambiamento che nasce dal muoversi in modo continuo, schizofrenico, allucinato. Nel Pd, c’è chi incensava Blair quando faceva i convegni con D’Alema e lo demonizzava quando li faceva con Renzi. C’è chi voleva cambiare l’articolo 18 per fare il moderno, ma lo vuole reintrodurre per fare il puro. C’è chi andava in televisione a fare il supporter (sfegatato) di Conte e poi il supporter (altrettanto sfegatato) di Draghi. Con la stessa convinzione. Con la stessa faccia accigliata di chi ti spiega dove sta andando il fiume della Storia. Dài, sali a bordo anche tu. Per i dirigenti del Pd sembra che ci siano solo due modi per sopravvivere:
(1) uscire dal partito per poi rientrarvi,
(2) restarci dentro inchinandosi allo spirito dei tempi e alla leadership del momento. Col risultato che chi osserva da fuori pensa di avere a che fare con un manipolo di trasformisti.

La seconda patologia potremmo chiamarla “estetica estremista”. Che non vuol dire che cucca di più chi va in piazza, suona la chitarra e si fa le canne (tra parentesi, quelle piacciono anche ai riformisti). Ma che i radicali, massimalisti o progressisti che dir si voglia non sono mai ritenuti “responsabili” delle cose che propongono. Sono belli così. Giovani e irresponsabili. Solo dai grigi riformisti ci si aspetta qualche risultato. E se non arriva, che vadano alla gogna. Da secoli, gli estremisti possono fare errori, mentre i riformisti devono, semplicemente, vergognarsi. Devono scusarsi di tutto quello che hanno provato a fare, invece di starsene in panciolle ad aspettare la rivoluzione.

La terza patologia, la più recente, è il “leaderismo effimero”. Anche qui intendiamoci: le leadership sono importanti, danno gambe alla missione collettiva di un’organizzazione. Nelle “monarchie repubblicane”, per dirla con Maurice Duverger, sono elementi imprescindibili dell’azione politica. Ma i leader sono direttori d’orchestra, non solisti. I leader forti decidono sì in autonomia, ma facendo sintesi delle idee che arricchiscono la loro comunità politica. I leader soli, invece, temono il dissenso interno, non si fidano di nessuno e decidono in modo umorale, superficiale. Il Pd continua a sfornare leader che prima o poi diventano soli (o sole). E’ un caso? Temo di no. Smarrita ogni missione collettiva, si fa fatica a distinguere tra due tipi di dialettica interna, una positiva e una negativa. Nella prima, ci si confronta con chi ha idee diverse e ci tiene che diano un contributo, ancorché non maggioritario. Nella seconda, ci si confronta con chi fa una corrente per chiederti posti in segreteria e in Parlamento quando sei forte, salvo accoltellarti alle spalle quando sei debole. Per paura della seconda, i leader (e le leader) del Pd si isolano. Non capendo che l’unico modo per evitarla è quello di coltivare la prima: la dialettica con chi non chiede posti ma porta idee. Finendo così col restare soli (o sole) a prendere decisioni effimere.

Quel pasticciaccio buffo dell’articolo 18

Per validare la teoria, passiamo all’analisi empirica, con un po’ di storia. Il primo leader di un grande partito di sinistra che propose di cambiare l’articolo 18 fu Massimo D’Alema, poi fermato dalla mobilitazione della Cgil di Cofferati. Cofferati che però si oppose nel 2003 al referendum di Rifondazione comunista per estendere l’articolo 18 sotto i 15 dipendenti, ipotesi oggi riproposta da Landini, di nuovo per via referendaria. Poi l’articolo 18 fu cambiato nel 2012 dal governo Monti, il cui azionista di maggioranza era il Pd di Pier Luigi Bersani. Sul piano giuridico e sostanziale, quello resta l’intervento che ha rimpicciolito di più il campo d’applicazione dell’articolo 18. Insomma: ammesso che ci sia stato un cedimento al liberismo, e volendo paragonarlo al comunismo sovietico, D’Alema e Bersani hanno impersonato Breznev, Renzi al massimo Gorbaciov.
 
Detto questo, i referendum della Cgil non abrogano il Jobs act: questa è una fake news di chi preferisce la propaganda alla sostanza. Tre su quattro col Jobs act non c’entrano un fico secco. Uno su quattro abroga in effetti uno degli otto decreti legislativi del Jobs act (il 12,5 per cento), ma è un’illusione ottica, perché quel decreto – sul contratto a tutele crescenti – è già stato stravolto dalla Corte costituzionale, che ha reintrodotto la discrezionalità del giudice nello stabilire l’indennizzo in caso di licenziamento. Quel pezzo di Jobs act non esiste più da tempo, perché il risarcimento non cresce più con l’anzianità in azienda con una formula fissa. E questa era l’unica cosa che si voleva fare, non per ridurre i costi di licenziamento ma per renderli prevedibili.

Si abroga una piccola parte del Jobs act che non esiste più, tornando così non all’articolo 18, ma alla disciplina Monti-Fornero-Bersani. Risultato: l’indennità massima che un giudice potrà stabilire in caso di licenziamento scenderà da 36 a 24 mesi, per avere la possibilità di reintegro in caso di “manifesta insussistenza” (una fattispecie del tutto marginale) e portare a casa lo scalpo immaginario del Jobs act. Un affarone.
 
Detto anche questo, il contratto a tutele crescenti era solo uno dei tanti ingredienti del Jobs act. La riforma degli ammortizzatori sociali (con il rafforzamento della Naspi; l’estensione della cassa alle piccole imprese; l’introduzione del Reddito di inclusione e delle prime tutele per il lavoro autonomo in due leggi collegate), le politiche attive e della formazione, la stretta sul precariato (con la norma sull’etero-organizzazione contro le false partite Iva, che i rider di Torino hanno usato per vedersi riconosciute le tutele del lavoro subordinato; l’abolizione dei cocopro e di altre piccole forme atipiche; la norma contro le dimissioni in bianco): tutti questi interventi ne rappresentano altri ingredienti fondamentali. Per carità, su alcune misure si fece troppo poco (per mancanza di risorse o volontà politica), ma la direzione era giusta. Il modello era la socialdemocrazia scandinava, non Blair. Non a caso tutte le riforme degli ammortizzatori che sono arrivate dopo, dal reddito di cittadinanza ai ritocchi del governo Draghi, sono andate nella stessa direzione, mettendoci più risorse, anche se a volte maldestramente.

Visto che nessuno propone di abrogare queste misure, nessuno sta abolendo il Jobs act. Anzi.  Sui temi del lavoro (salario minimo, politiche industriali, congedi paritari, formazione permanente) non si è mai vista così tanta convergenza e unità di vedute tra chi si occupa di queste cose all’interno del centrosinistra. Distogliere l’attenzione da questi temi per dividersi su una bandierina del passato è funzionale solo a dirigenti politici e sindacali che non hanno altri strumenti per nascondere un vuoto di idee e rappresentanza. Chi parteciperà al teatrino di questo scontro fittiziamente ideologico, si renderà complice di un crimine non contro il riformismo, ma contro la buona politica.

Due pesi, due scuse

Questo teatrino sul Jobs act rende evidenti le tre patologie da cui siamo partiti.

Cambiamento opportunista. Con quale faccia, chi il Jobs act l’ha votato e anche elogiato, può oggi chiamarlo il “jobs act del lavoro ricattato e precario” (per dirla con un volantino elettorale del Pd di Firenze)? Che credibilità può avere un partito che demonizza una riforma che ha fatto pochi anni prima con un leader votato da otto militanti su dieci? Nota a margine: demonizzare è diverso da criticare.

Estetica estremista. Ai riformisti viene chiesto di scusarsi per quella stagione di riforme. E in tanti ne abbiamo discusso i limiti e gli errori, anche con una dose di autocritica. Ad altri, però, le scuse non vengono chieste. Qualcuno si è scusato per aver umiliato il Parlamento tagliandolo a casaccio? Qualcuno si è scusato per aver affossato una riforma istituzionale che avrebbe reso i diritti alla salute e al lavoro più forti sul territorio nazionale, correggendo il Titolo V? Qualcuno si è scusato per aver definito progressista un presidente del Consiglio che ha firmato i decreti Salvini? Qualcuno si è scusato per aver spinto una politica regressiva e contro i giovani come il superbonus?

Leaderismo effimero. Si dice: Elly Schlein è sempre stata coerentemente contro il Jobs (vero), non poteva far altro che appoggiare il referendum della Cgil (falso). Schlein è la segretaria del Pd. Una leader ha il diritto di imporre la sua linea, ma non può umiliare la storia e la natura, aperta e plurale, del partito che dirige. Renzi veniva dai popolari, ma ha portato il Pd nei socialisti europei. Quanto sarebbe stata diversa la firma della segretaria del Pd a quel referendum se avesse detto: io sono sempre stata contraria alla filosofia del Jobs act, anche se non lo demonizzo e non faccio fatica a riconoscere che c’erano anche misure valide. Il quesito referendario abroga un contratto che di fatto non esiste più, è quindi una buona occasione per fare pulizia e ripartire guardando al futuro, ai problemi di chi lavora oggi. Lo firmo senza guerre di religione e per guardare avanti. Così avrebbe depotenziato un’arma che verrà presto usata contro di lei se le cose andranno male. Invece, ci si è buttati a capo fitto su una decisione effimera, poco meditata, dando l’impressione di farsi dettare la linea dalla Cgil (e dall’associazione nazionale magistrati sulla separazione delle carriere). Nel frattempo, chi sostiene idee diverse viene accusato di collusione col nemico, di fare un favore alla Meloni. Questo modo di ragionare fa male al Pd e rende più debole la sua segretaria. Serve chiarezza.

Chi pensa che il governo Renzi sia stato di gran lunga migliore del governo Conte, da una prospettiva squisitamente di sinistra; chi pensa che l’uguaglianza sia una cosa troppo seria per accontentarsi degli slogan del passato; chi pensa che l’unità sindacale sia un bene prezioso, da costruire nei luoghi di lavoro più che nelle piazze; chi pensa che la forma di governo e il sistema giudiziario del nostro paese abbiano bisogno di riforme profonde; chi pensa che aiutare l’Ucraina contro l’aggressore russo non sia solo un dovere morale, ma un passaggio fondamentale per rafforzare l’Unione Europea: prendiamo gli uomini e le donne di centrosinistra che la pensano così e chiamiamoli in qualche modo. Riformisti e riformiste, per amor di sintesi. Chi dirige il Pd dovrebbe rispondere a due domande: le riformiste e i riformisti, non come corrente organizzata, ma come persone libere che hanno le idee di cui sopra, sono a malapena tollerati nel Pd o sono rispettati e ascoltati, anche se la maggioranza la pensa in modo diverso? Tenere vive queste idee, anche se non coincidono con quelle dell’attuale maggioranza del gruppo dirigente, fa un favore alla Meloni o al Partito democratico? Queste domande meritano risposte chiare. Da parte loro, riformiste e riformisti dovrebbero dire qualcosa con altrettanta chiarezza. Basta esami del sangue. Ci siamo scusati abbastanza.

Di più su questi argomenti: